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Se la Milano del miracolo economico torna in fabbrica

Scritto da  Paola Bricco

Tutto succede nella fabbrica del Miracolo economico. Da qui si riparte. Dallo stabilimento della Giulia e della Giulietta Sprint. Qui sembrano assumere un profilo sempre più nitido le tre M: Milano, manifattura, macchine. In giro – nella pancia prima che nella testa degli italiani – non ci sarà la forza tellurica, felice e quasi cieca, degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma, di certo, qui percepisci l'energia nervosa trattenuta, che diventa tensione progettuale silenziosa e coriacea, dei progettisti che – accolti sul palco con gli occhi brillanti da Sergio Marchionne e da John Elkann – si sciolgono sorridendo come bambini dopo che è stata presentata la Giulia. La “loro” Giulia, il perno dei cinque miliardi di euro di investimenti per la ricostruzione e il rilancio dell'Alfa Romeo che rappresenta anche un nuovo modo di concepire la tecnologia e la manifattura, la creatività e l'estetica: Marchionne li chiama gli Skunks, in ricordo dei tecnici della Lockheed che in 143 giorni – sette meno dei 150 assegnati da Washington alla loro mission impossible - progettarono e realizzarono il primo caccia statunitense, operando fuori da ogni gerarchia e convenzione della impresa tayloristica e cambiando gli equilibri nei cieli della seconda guerra mondiale a favore delle forze anglo-americane. Mercati sempre più integrati. Dunque, immaginario globale e naturaliter americano. Soprattutto in un gruppo autenticamente transnazionale quale è oggi Fiat Chrysler Automobiles.                         

Per due anni e mezzo – fra Piemonte ed Emilia Romagna – nelle fabbriche fantasma – di cui nessuno sapeva l'esatta collocazione – questi ragazzi hanno gettato le basi per una nuova cultura industriale. Piccoli gruppi superspecializzati. Il massimo delle conoscenze e dell'irregolarità. Il bisogno di raggrumare ciò che serve davvero per consolidare e rivitalizzare il Dna dell'Alfa Romeo, e anche dell'Italia: quella miscela di competenza manifatturiera e di soft economy, di sguardo rilucente di tradizione antica e di Ph.D. conseguiti nelle cattedrali tecno-scientifiche americane, in grado di fare qualcosa di nuovo nell'industria contemporanea. Partendo dall'auto, che ancora una volta si dimostra l'industria del secolo. Non solo di quello passato. Perché, come dicono tutti – da Marchionne a Harald Wester, capo del polo lusso composto da Maserati più Alfa Romeo – il problema è proprio quello di esprimere qualcosa di “caldo”.

Qualcosa in grado di dire parole diverse rispetto all'eccellenza standardizzata e anonima che caratterizza oggi l'automotive industry. Nella Giulia e nelle prossime macchine. Ma, anche, per estensione in tutta la manifattura italiana, inchiavardata nella Lombardia specializzata nel medium tech e nel connubio fra saper fare ed estetica (non solo la componentistica e lo stile dell'auto, ma anche i mobili e la moda) e incardinata poi, a scendere per li rami, nell'Emilia Romagna dell'eccellenza agroalimentare, nelle Marche delle scarpe e nella Toscana del pellame, per citare quella realtà complessa e multiforme che è l'Italia in cui, appunto, in ogni campo si prova ad esprimere qualcosa di “caldo”, qualcosa di “diverso”. Semi in grado di germogliare su un terreno reso arido dalla recessione, che ha però evitato la desertificazione industriale grazie alla resilienza – misto di resistenza e di elasticità – che caratterizza la società e l'economia italiane, elementi indistinguibili che alla fine si condensano nell'uomo di fabbrica, non importa che sia imprenditore o operaio, tecnico o artigiano. Arese, Milano. Sono luoghi complementari, nel romanzo economico e civile di un Paese maledettamente complicato e vitale come il nostro, a Mirafiori e a Pomigliano d'Arco, a Melfi e a Cassino.

Le cose, però, non capitano mai a caso. I luoghi hanno un'anima. Sì, perché Arese è – più di Sesto San Giovanni, più delle Reggiane, forse più perfino di Mirafiori – lo stabilimento simbolo dell'industrializzazione italiana del secondo Novecento: l'uscita dalla seconda guerra mondiale e la fine della dittatura, il benessere come elemento programmatico della Costituzione materiale e gli operai veneti e pugliesi integrati a Milano più che nella dura Torino, la sindacalizzazione come alfabetizzazione alla politica e all'organizzazione della civiltà industriale fordista, con le sue sottili crudeltà collettive e la forza di espansione dell'esperienza e delle conoscenze dei singoli. Succede, dunque, di nuovo ad Arese.

In spazi lasciati vuoti da venticinque anni di progressivo declino produttivo dell'Alfa Romeo, che ha “disossato” quest'ultima di molti contenuti industriali e tecnologici ma non di quella cosa pazzesca che è il suo marchio e la sua forza evocativa, ecco che qui non soltanto viene appunto presentata – con il glamour di una icona pop come Andrea Bocelli che canta il “Nessun dorma” della Turandot di Giacomo Puccini – la Giulia, emblema della progettualità industriale e commerciale di un gruppo quale Fca che ha potuto rilanciare l'Alfa Romeo grazie alla forza finanziaria, agli asset tecno-produttivi e alla rete globale di vendita generati dalla fusione fra Fiat e Chrysler.

Qui ad Arese viene costruita anche la rappresentazione di una progettualità storica che, sotto il profilo identitario e nella intima dimensione della cultura industriale, è proiettata verso il futuro. Qui c'è, infatti, il museo dedicato all'Alfa Romeo: ordinato e suggestivo, filologico ed emotivo come soltanto il connubio della milanesità che non ha paura del sentimento della bellezza e della torinesità pignolamente ingegneristica saprebbero fare. E quella infinita serie di auto, che dall'Alfa 24 HP del 1910 hanno segnato la storia industriale e tecnologica occidentale, sembra raccontarci - come nella versione meccanica e industriale di una poesia di Eugenio Montale - chi siamo e quello che vogliamo. Tanto che, osservando il Disco Volante del 1952 o la Carabo di Marcello Gandini del 1968, viene in mente la frase – così intima e sincera, nell'ammirazione per quello che al suo meglio l'italianità sa fare – di Enzo Ferrari: “All'Alfa? All'Alfa sanno fare i guanti alle mosche”.

*pubblicato originariamente su Il Sole 24 Ore, www.ilsole24ore.com

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