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Milano Moda Donna e un settore che vale 60 miliardi di fatturato annuale

Scritto da  Paola Bottelli

Leonardo di Caprio ritira l’agognata statuetta in un impeccabile tuxedo nero Giorgio Armani cucito su misura per lui e nel backstage della sfilata autunno-inverno 2016-17 lo stilista celebra il made in Italy. “Sono felice per il suo Oscar – dice Armani – e felice che indossasse un mio abito. Tutto il mondo invidia quel che sappiamo fare: la moda made in Italy è il top dell’eleganza e non è certo un caso che anche i concorrenti esteri facciano produrre qui le loro collezioni”. La filiera – malgrado le difficoltà che colpiscono le piccole e medie imprese del settore, spina dorsale del sistema – ha innestato il turbo nei sei giorni del calendario di Milano moda donna. Oltre ai tessuti e alla maglieria sviluppati in partnership con gli anelli a monte della “catena” artigianale e industriale, sulle passerelle hanno sfilato capi punteggiati da nappe e nastri, paillettes e bottoni speciali, frange e passamanerie, fiori e mostrine, in un festival della decorazione che rischia, però, di sfociare in un circo Barnum quando il fast fashion sfornerà una valanga di look “ispirati” alle sfilate e i consumatori faranno shopping.

Al di là del gusto personale, ogni brand segue ovviamente le proprie strategie, ma quel che si è visto sulle passerelle di Milano moda donna non ha convinto molto Armani: “Ho visto solo le foto, ma non c’era un messaggio ben preciso: mescolando tutto, non si rischia nulla. Non è un giudizio negativo, per carità, perché anch’io so bene quanto sia difficile registrare buoni risultati in un mondo che cambia così velocemente. Bisogna mediare, ma senza essere succubi del mercato. Quel che conta, alla fine di tutto, è che l’abito “esca” dal negozio e che non sia destinato soltanto a una donna che gira con l’autista in livrea”.

Insomma, la parola d’ordine è sell-out, anche se è chiaro che le passerelle devono declinare soprattutto il lato emozionale della moda, l’attesa di trovare in negozio il prodotto che si è desiderato, un fatto che forse sembra bizzarro agli italiani (e agli europei) che acquistano con il contagocce, ma che è il fulcro dell’appeal per un cinese.

Ecco perché la maggior parte dei brand non sembra affatto intenzionata a cambiare il modello di business legato alla tradizionale stagionalità: in inverno si lancia l’inverno successivo e, al massimo, può funzionare la collezione-capsula. “Ferragamo non cambierà la formula consueta – ha spiegato il ceo Michele Norsa a margine della sfilata di domenica – perché c’è il fast food e ci sono i grandi ristoranti di alta cucina: per realizzare i nostri prodotti, che sono rigorosamente made in Italy, ci vogliono certi tempi, incompatibili con il “vedo&compro””. 

E, per restare in tema, Massimo Giorgetti, fondatore, ceo e direttore creativo di Msgm, ha ribadito il suo “stop alla moda cotta e mangiata” chiedendo agli ospiti di non postare su Instagram foto della sua sfilata, non a caso battezzata Interlude, che però è integralmente uscita su vogerunway.com, il sito di riferimento per le immagini degli show. Quel che lo stilista – pioniere della moda “rimescolata” che impazza ora – ha voluto rallentare è proprio l’effetto moltiplicatore dei social media, che bruciano in poche ore un lungo processo creativo. L’effetto-Snapchat, il social in cui i video scompaiono in 24 ore, non può essere apprezzato da chi si sforza di valorizzare il patrimonio di creatività che, pur differenziato in base ai talenti e agli anni di vita di un’azienda, fa parte del Dna di un sistema industriale. Quello italiano vale 60 miliardi di fatturato e 47,4 miliardi di export. Due numeri da non dimenticare mai.

*pubblicato originariamente su: http://paolabottelli.blog.ilsole24ore.com/

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