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Lago: le ghiacciaie di Cazzago Brabbia nella tradizione orale

Scritto da  Luigi Stadera

Esiste una "cultura del lago"? Sul piano antropologico non c'è dubbio, intendendo per cultura la maniera di lavorare e di vivere nell'ambiente lacustre, pressoché immutata lungo i secoli e segnata da consuetudini che hanno finito per modellare l'identità dei rivieraschi. E nel lago di Varese, interessato da un insediamento palafitticolo fra i maggiori d'Europa, la pesca è stata sempre l'attività dominante, dalle tecniche di cattura al commercio del pescato.

Per mantenere il pesce in buone condizioni di commestibilità si è fatto ricorso a vari espedienti, fra i quali il freddo e l'acqua; a Cazzago a entrambi. Ne riferisco insieme a un'altra operazione (la tintura delle reti), che sul piano "culturale" è per certi aspetti analoga.

Al pórt c'è ancora la cà dur lägh (casa del lago): un deposito per le reti e per gli attrezzi e un ricovero per i pescatori, adibito un tempo anche a lazzaretto (per esempio, nell'epidemia di colera del 1867). All'interno c'è un vivée (vivaio) alimentato da una fonte naturale, dove il pesce si teneva in vìv (soprattutto la tinca e l'anguilla) sia per venderlo al momento propizio sia per fargli perdere un eventuale sentore di fango (el sa de fùnd, si dice in dialetto).

C'è anche un focolare sui generis, sormontato da un calderùn di rame, nel quale si faceva bollire nell'acqua la rüsca ,per tingere le reti in fibra vegetale. Rüsca è voce di probabile origine celtica e significa "corteccia", nel nostro caso il guscio delle castagne, ricco di tannino e perciò adatto a proteggere il filo e a dissimularlo agli occhi del pesce. Parlo naturalmente di castagne terrestri, perché quelle d'acqua (lagànn) sono munite di spine seghettate che sembrano fatte apposta per impigliarsi nella rete. Alla tència (tintura) partecipavano tutti i pescatori del lago (e dei laghi vicini): era dunque un'impresa collettiva, rituale e coinvolgente, più o meno come il taglio del ghiaccio.

In verità già il fatto che il lago gelasse, a volte completamente, esercitava un richiamo irresistibile e tutto il paese si riversava sulla superficie ghiacciata, attratto dal nuovo stato delle acque e dalla possibilità di percorrerle. Secondo il Quaglia (1884), che forse esagera, il ghiaccio arrivava allo spessore di un metro; certo è che una copertura integrale permetteva di raggiungere a piedi l'altra sponda, come facevano i mugnai di Groppello e di Oltrona con le farine. Di qui la leggenda del cavaliere che attraversa il lago gelato e innevato credendolo una pianura: evidente mitizzazione di un'usanza ancestrale.

Il ghiaccio si tagliava quando era alto circa dieci centimetri, di solito al pórt; a meno che la ripida salita della cósta dur lägh fosse talmente gelata da impedire il transito dei cavalli, per quanto ferrati con ciód de giàsc (chiodi da ghiaccio); l'operazione si compiva allora a Ciapéra, perché la stravèla si immette più dolcemente nella vecchia strada comunale.

Il mio racconto si rifà ai ricordi personali e a quelli degli anziani, ascoltati da bambino, com'è nel canone della tradizione orale; molte notizie devo al non dimenticato Lodovico Giorgetti, uomo di lago nato in una famiglia di pescatori professionisti. Già nella mia infanzia la Cooperativa Pescatori si era trasferita a Calcinate, dove confluiva tutto il pesce e quindi il ghiaccio di Cazzago era utilizzato dai pescivendoli e dal macellaio (in caso di necessità dagli ammalati); ma la tecnica di taglio e di conservazione era sempre la stessa.

C'erano molti paesani (e molti ragazzi) quando gli uomini cominciavano a tagliare il ghiaccio con la scure (sugü, dal latino securis) in grandi lastre agganciate e tirate a riva con il gräfich (Longobardico *grapfo, latino medievale graffa, italiano graffio): un uncino di ferro montato su una lunga pertica di legno. Il ghiaccio era poi caricato sui carretti e trasportato alle vicine ghiacciaie.

Prima di lasciare il lago ricorderei, come "procedimento connesso", un sistema di pesca nel quale sono implicati il ghiaccio e la scure. Quando l'acqua si raffredda, molti pesci si riparano nella melma del fondo. Attraverso il ghiaccio trasparente si può individuarli, aprire un pertugio con la scure e fiocinarli; in vernacolo pescää a giascèt.

Le tre ghiacciaie di Cazzago sorgono dietro la chiesa, su un terreno a ruèrz (a rovescio, cioè a nord) e una volta ombreggiato da grandi alberi, sotto la casa dei Giorgetti affittuari della pesca. Nei contratti d'affitto erano chiamate "conserve", che il dialetto ha storpiato in Cunsèrt per indicare il luogo, mentre la ghiacciai a è detta giazéra (da giàz, versione arcaica di giàsc, in latino glacies). La struttura è circolare, con ingresso a timpano e doppia porta, senza finestre (ovviamente); la "camera del ghiaccio" è sotterranea, a forma di uovo, per convogliare al centro la pressione esterna.

Quando i carretti arrivavano dal lago si "caricava" la ghiacciaia. Le lastre erano frantumate con mazzuoli (mazöö) di legno duro, come il pruno selvatico, e i frammenti ammassati e compressi nel "pozzo", eliminando le bolle d'aria e ottenendo un blocco compatto, sul quale si spargeva la büla (cascame della trebbiatura dei cereali); altra büla era introdotta negli interstizi che si formavano lungo le pareti; alla fine si ricopriva il tutto con stuoie di giunco lacustre. Il nome dialettale è störa de caniröö, dove störa vale "stuoia" (dal latino storea) e caniröö "giunco" (da cäna "canna palustre", con la quale cresce nel lago): il fusto è senza foglie e l'interno sembra polistirolo espanso, di cui ha il potere coibente. Come si vede, tutto concorre a isolare: e infatti il ghiaccio si manteneva fino al taglio successivo.

Fra la prima e la seconda ghiacciaia (da est a ovest) c'era un edificio, ora scomparso, che dopo il trasferimento della Cooperativa Pescatori a Calcinate divenne il macèl (macello), ma dove in precedenza si "trattava" il pesce da spedire: si lavava (è rimasto un lavello in pietra - ora sulla piazza della chiesa datato 1793), si pesava, si disponeva in ceste con il ghiaccio e si copriva di felci (fires, da latino fifix). Alla distribuzione nei paesi del circondario provvedevano i singoli pessàt (pescivendoli); con il carretto e con carichi più consistenti si arrivava a Varese e a Milano (al mercato del Verziere, scrive il Quaglia); la ferrovia consentì spedizioni più lontane, per esempio in Piemonte e addirittura in Francia. Alla base di un commercio per i tempi assai esteso c'era chiaramente la disponibilità di ghiaccio. L'alternativa del vivée era in fondo di modesta entità; e di qualche raffinatezza in riva al lago. Altrove, prima del ghiaccio artificiale e del frigorifero, era invece diffusa, tanto che ne troviamo indizi nella microtoponomastica dialettale, per esempio nel Peschéra di Azzate e nel Pescherì di Ternate (da latino piscària, di vario significato: qui "ricetto per tenervi dentro i pesci", secondo la definizione del Cherubini).

Nella tradizione orale le ghiacciaie sono senza tempo, come se fossero sempre esistite: non è un abbaglio storico, ma la prova dell'appartenenza ai luoghi e alla loro identità; un simbolo di quella "cultura del lago", non sempre manifesta nei "documenti" e destinata a impallidire nel ricordo, ma nondimeno iscritta nel dna dei Cazzaghesi.

È dunque giusto, al di là del valore "artistico" e dell'architettura comunque singolare, che il complesso sia restituito al paese nelle sue forme originarie e nella sua pregnanza "materiale", molto più eloquente di tutte le parole e di tutti i libri. A futura memoria.

*pubblicato originariamente su www.lagodivarese.it - da I cunsert, 2003, 25-08-2008.    Foto: Fabio Vallino

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