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Claudio Bollentini

Claudio Bollentini

Ce li ricordiamo tutti negli anni 90, dopo il crollo della prima repubblica in seguito ai fatti di tangentopoli. Il disfacimento di Democrazia Cristiana e Partito Socialista liberò un vasto segmento sociale prima che politico che si trovò magicamente al centro dell’interesse, favorito anche dalle rinnovate leggi elettorali sia per le amministrative sia per le politiche. Ballottaggi da una parte e collegi uninominali dall’altra con quota proporzionale enfatizzavano l’utilità marginale prodotta da personale politico, partiti e partitini collocati al centro. Tra centrodestra e centrosinistra, tra Ulivi e Poli, c’è stata una lunga stagione, durata circa un decennio, in cui i moderati di tutte le estrazioni, con alleanze variabili alla bisogna, spostavano a destra o a sinistra l’ago della bilancia facendo vincere ora questa ora quella coalizione a livello nazionale o locale che fosse, fin nel più sperduto comune. Al di là dei giudizi o delle analisi, se malevole, venivano additati come banali trasformisti e opportunisti, se benevole, si diceva cha avessero semplicemente ben interpretato il momento storico e le occasioni offerte dalle nuove leggi elettorali, è indiscutibile che abbiano tenuto banco per tanti anni con successo e risultando determinanti in tante circostanze. Con competenza ed esperienza coltivate in anni di politica ad alto livello e grazie ad una scuola raffinata, quella dei partiti della prima repubblica, avevano trovato quegli spazi, o quelle vere e proprie praterie, che non avevano a disposizione ai tempi dei partiti ingessati e verticistici degli anni precedenti. Sembravano poi spariti nel riflusso o nella decadenza della seconda repubblica, inghiottiti o superati dalla politica politicante, chi ritiratosi anzitempo, chi accomodatosi definitivamente da qualche parte. Da migratori a stanziali in meno di una stagione. Ma è stata solo una illusione passeggera. Era facile immaginare che al primo collasso, anche non della portata dirompente di Tangentopoli, questo schieramento occulto si rifacesse sentire e tornasse utile. Il declino della credibilità di classe politica e partiti, la lunga crisi economica non ancora terminata, la disaffezione ormai conclamata dei cittadini nei confronti del ceto politico, scandali e scandaletti ormai trasversali e sempre più frequenti, hanno indotto i partiti a ripensare completamente strategie di comunicazione, di aggregazione, di reclutamento nonchè contenuti e progetti. In periodi di confusione, di incertezza, di discredito generalizzato, per rintuzzare la deriva dell’antipolitica e del disinteresse, ecco tornare in auge il moderato buono per tutte le stagioni, presentabile, con una sua storia autonoma di piccoli e grandi successi. Estinti i partiti, quelli veri, come base di reclutamento, da tempo non resta che pescare in tutti quei mondi della società civile che per un motivo o per l’altro sono vicini alla politica, o per lo meno ne subiscono il fascino o in alcuni casi, più prosaicamente, hanno interessi da difendere.

Questo ritorno di fiamma lo notiamo benissimo a Milano, pur non essendo ancora entrati nella campagna elettorale vera e propria. Da Giuseppe Sala a Corrado Passera, per limitarci ai grandi nomi. Due casi diversi per un fine comune, quello di essere determinanti nella corsa vincente dello schieramento prescelto. Nel caso di Sala, un profilo da spendere subito per spostare al centro la sinistra, ma sarà interessante studiare il gioco delle liste civiche di supporto che comprenderanno, o nasconderanno, di tutto e di più nell’area moderata, al fine esclusivo di vincere. Passera gioca in proprio al primo turno, guarda a destra, potrebbe diventare il quid vincente per il ballottaggio. Come subordinata l’ex banchiere spera che la confusione totale intorno all’asse Salvini-Berlusconi per la scelta del candidato lo porti alla ribalta come ultima spiaggia. Lui la campagna l’ha già confezionata, la candidatura è lì pronta e ci ha pure messo un bel po’ di soldini. Intorno ai due nomi in questione ruoteranno centinaia di moderati senza fissa dimora e reduci di tutte le stagioni politiche, quelli di cui solitamente non riusciamo a ricordare con precisione tutti i precedenti posizionamenti. Se focalizziamo invece l’attenzione su Varese, qui troviamo a destra un potenziale candidato pescato nella società civile, tale Stefano Malerba, un moderato sicuramente, ma in realtà è una foglia di fico, non dimostra nessuna autonomia politica, una marionetta utilizzata per perpetuare i soliti giochetti e le straviste camarille varesine. Dall’altro lato della barricata, il nome più quotato sembra Daniele Marantelli. Una vecchia gloria del Pd che si mette in gioco buttando sul tavolo molte carte personali, ha un peso specifico tutto suo che va ben al di là del perimetro del partito di appartenenza. Sicuramente sia Malerba sia Marantelli non sono ascrivibili alla tipologia moderata che abbiamo esposto più sopra, ma tenteranno l’aggregazione in quel segmento ritenuto l’ago della bilancia. Un copione che interpreterà con più chanches di successo Marantelli proprio per aver vissuto in prima persona quella stagione politica passata: Qualora vincesse le primarie, cercherà di replicare una versione riveduta, corretta ed aggiornata dell’Ulivo, un’alleanza magari in chiave civica tra Pd e vasti ambiti dell’area moderata. A quel punto si può facilmente immaginare che a destra succederà qualcosa, se l’intenzione è quella di vincere. Tramonterà Malerba e si punterà su figure dal profilo politico simile a Marantelli, capaci di aggregare sia partiti sia società civile e puntando il medesimo mercato elettorale, i moderati.

Come un fiume carsico, ogni tanto emerge dall’oblio la ZES, la zona economica speciale, volgarmente nota come zona franca. Ora è il turno di Confcommercio che ribadisce tramite Ascom Varese l’impegno a sostenerla e a riportarla all’attenzione di tutti. Un impegno non nuovo quello dei commercianti varesini, già un anno fa ai tempi dell’approvazione della delibera regionale in questione, la n. 420 del luglio 2014 “Proposta di legge per la istituzione di zone economiche speciali (ZES) nelle aree territoriali della provincia di Varese (…)”, fecero sentire la loro voce e soprattutto il loro appoggio. Ma come è noto, il provvedimento si è poi perso nel porto delle nebbie romano e il rischio che finisca pericolosamente fuori dai radar di politici ed istituzioni anche locali è concreto. La contingenza economica da un anno a questa parte non è cambiata un granchè nel varesotto e persistono o si aggravano gli effetti della crisi economica e della delocalizzazione produttiva in tante parti della provincia. In alcune particolari situazioni locali sono lampanti, visibili anche all’occhio più distratto, i segni del declino industriale e delle attività in generale. L’incepparsi di uno dei motori economici italiani, il territorio insubrico, dovrebbe scatenare le reazioni di tutti o per lo meno l’interesse in primis dello Stato italiano e dell’Unione Europea. Ed uno degli strumenti migliori per sostenere e sviluppare l’economia in alcuni territori colpiti fortemente dal declino, dalla crisi, dalle delocalizzazioni sembra sicuramente essere l’istituzione di zone dotate di straordinarie agevolazioni fiscali ed amministrative. E l’Italia in merito è fanalino di coda in Europa. Nella UE molti Stati membri (Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovenia, Portogallo e Spagna) hanno già attivato ZES nei propri territori. Di particolare rilevanza è l'esperienza della Polonia dove sono state istituite ben 14 zone economiche speciali, vere protagoniste del grande rilancio economico di tale paese e nel quale alcune ZES si sono specializzate in specifici comparti di attività economica, come nel caso famoso della ZES di Katowice con un comparto principale nel settore automobilistico dove sono presenti importanti multinazionali come General Motors, Fiat, Isuzu, ecc.. Da noi, più che altrove, c’è la pericolosa sinergia tra due fattori negativi, la crisi economica che ha fiaccato interi settori produttivi e la delocalizzazione in tanti paesi più o meno lontani, ma soprattutto nel confinante Canton Ticino. La ZES non risolve tutti i problemi, d’accordo, ma è un buon punto di partenza, uno stimolo. Per esempio per affrontare in modo strategico e lungimirante il reshoring industriale di tante aziende lombarde che stanno meditando seriamente il rientro in Italia. Come nel settore tessile. Un ritorno che per il momento avviene in modo eccessivamente spontaneo e nel disinteresse quasi totale della politica e delle istituzioni nazionali e locali. Ricordiamo poi che delocalizzazione e declino industriale nelle zone di confine della Lombardia hanno generato una conseguenza che potrebbe creare a breve qualche problema sociale, la crescita in modo abnorme del flusso di lavoratori pendolari oltreconfine, i frontalieri, che in Lombardia sono oltre 60.000. E quasi tutti residenti nelle province di Varese e Como. La situazione politica poco amichevole in Svizzera nei confronti di questa categoria, ma anche la saturazione del territorio elvetico che non assorbe quasi più nuovi insediamenti, dovrebbe spingere le istituzioni e la politica locale ad affrontare per tempo il fenomeno dell’eventuale rientro nel medio termine di tanti lavoratori che rischierebbero di trovare in Italia solo disoccupazione

Di fronte a questa realtà dei fatti colpisce non solo la frammentazione delle prese di posizione o il quasi silenzio di alcune associazioni, ma il fatto che la questione del rilancio delle aree in crisi, soprattutto del nord della Lombardia, non venga ritenuta prioritaria se non a parole. Da mettere invece in testa alla agenda di chiunque abbia a che fare con lo sviluppo del territorio dal punto di vista economico. La Regione Lombardia ha fatto la sua parte con l’approvazione della suddetta delibera, ora la palla è passata a Roma, ma non si muove nulla. E’ la lobbying territoriale che oggi deve farsi sentire, fare sistema e portare finalmente a casa qualcosa.

E’ ragionevole pensare che la ZES torni prepotentemente alla ribalta nelle prossime settimane e nei prossimi mesi in previsione della imminente campagna elettorale locale. E questo è un bene, almeno si tiene desta l’attenzione, ma il rischio che diventi argomento buono solo per confezionare slogan è purtroppo concreto.

Intorno alle candidature a sindaco dei principali schieramenti spuntano più o meno spontaneamente le liste civiche collegate. Sarebbe più corretto definirle liste civiche-politiche nel caso più nobile, oppure liste ciniche nel caso in cui siano meri strumenti raccattavoti dietro cui si celano i soliti partiti magari poco presentabili dal punto di vista dell’immagine e della comunicazione. A Milano, il manager Giuseppe Sala continua a smentire qualsiasi scenario, tranne l’interesse a scendere in campo, non consapevole forse del fatto che in politica le smentite sono una notizia data due volte, non fanno altro che confermare la realtà dei fatti, quelli che per ora appunto sono solo ipotizzati. “Il Partito della nazione? Ma se io, come tutti gli italiani, non so neppure cosa sia....” si affretta a dire a chi lo ritiene ormai l’alfiere di Matteo Renzi nel laboratorio politico milanese, punto di partenza e di collaudo del suddetto partito della nazione ovvero il listone a trazione Pd da costruire per le prossime elezioni politiche del 2018. Lo impone l’Italicum, non un capriccio politico di questo o di quel leader. Ma solo pensarlo potrebbe creare problemi irreparabili sul fianco sinistro della coalizione, quel segmento che sogna ancora la replica della rivoluzione arancione e che vede con sospetto un Sala già di per sé targato centro o comunque area moderata. Ed ecco spuntare il cubo di Rubik, la lista civica del sindaco, per edulcorare qualsiasi disegno politico sovrastante, per dare una qualche consistenza politica al candidato civico, per nascondere più di un partito che per opportunità ed immagine è meglio che non presenti simbolo e lista nella coalizione. Sperando che lo strumento escogitato riesca ad innescare quel prezioso e virtuoso volano del consenso tra allargamento del mercato elettorale e crescita dell’utilità marginale del candidato sindaco civico. Gli ingredienti che solitamente risultano decisivi per la vittoria finale. Nel centrodestra milanese non è ancora dato sapere che tipo di strategia sarà applicata semplicemente perché sul candidato sindaco si naviga nella nebbia più fitta, ma è facile immaginare che se la scelta dovesse cadere su di un profilo civico, la lista del sindaco non mancherà sicuramente all’appello, naturalmente coalizzata con i soliti partiti che non rinuncerebbero ai loro simboli.

Se invece guardiamo il caso Varese, qui l’utilizzo della lista civica-politica è un po’ più artigianale o di bassa cucina. Se ne parla a destra nel caso si confermasse la candidatura di Stefano Malerba, un civico, appunto. Un candidato che sta perdendo sempre di più tale caratteristica indipendente, sul suo nome è stato lanciato immediatamente l’ingombrante cappello di un assembramento centrista orfano di tanti partiti estinti o alla deriva. Ammesso e non concesso che il suddetto Malerba riesca ancora a gestire un qualche spazio di autonomia, è assai probabile che la sua candidatura sia appoggiata da una lista civica omonima e appare già oggi scontato immaginare che tale lista non sarà altro che il camuffamento di Varese Attiva, l’assembramento sopra ricordato, più qualche mosca cocchiera per confondere le acque. Sarebbe nient’altro che una lista civica-cinica in cui da una parte alcuni politici a fine carriera cercano di raschiare il fondo del barile del proprio consenso allargandolo, sperano, con quello del Malerba. Un dejà vu che di solito non risulta particolarmente accattivante agli occhi dell’elettore. E quindi non determinante. A Sinistra si è espresso in merito e più volte Daniele Marantelli forse per rintuzzare la concorrenza del candidato alle primarie Daniele Zanzi di caratura prettamente civica. Marantelli immagina addirittura un listone civico mescolato con i candidati del Pd e forse di qualche altra formazione. Un partito della nazione artigianale, alla buona, credo difficilmente comprensibile ai più. E forse pure penalizzante dal punto di vista dei numeri, nei comuni è noto che sia meglio presentarsi con più liste assortite piuttosto che con un listone omnicomprensivo. Se dovesse prevalere invece Daniele Zanzi è pensabile che un disegno veramente civico legato al candidato sindaco possa sopravvivere, naturalmente in alleanza con il Pd ed altri. Degli altri potenziali candidati del Pd onestamente non conosco l’opinione.

Il dibattito sulle liste del sindaco ha acceso, come sempre ogni cinque anni, la miccia sulle solite polemiche stucchevoli e quasi sempre pretestuose tra chi si ritiene paladino delle liste civiche indipendenti e quelli che le liste civiche le intendono come allargamento del consenso delle coalizioni politiche o per dare una caratura concreta ad un candidato sindaco di matrice civica. Al netto delle strumentalizzazioni da una parte e dall’altra e che vanno sicuramente stigmatizzate, la diatriba ha un retrogusto ideologico che spesso e volentieri sconfina nella farsa. E che come sempre penalizza le liste civiche indipendenti che proprio perché riluttanti a competere con le metodiche e gli strumenti della politica non vengono votate da nessuno. E l’escamotage reputazionale non imbambola nessuno. Come diceva il saggio, a furia di predicare la tua verginità finirai solo per trovare qualcuno più vergine di te. Che ti manderà a casa.

L’unica certezza sotto il cielo politico di Varese sono le primarie del Pd il prossimo 13 dicembre. L’interesse di chiunque a sinistra e a destra è concentrato sull’esito di quelle elezioni sia per conoscere chi sarà il candidato sindaco sia per valutare le conseguenze concrete sullo scenario cittadino di questa vera e propria pre-campagna elettorale. Primarie effettivamente rischiosissime sul fronte degli eventuali contraccolpi negativi che potrebbero verificarsi e di cui abbiamo già parlato, ma sono allo stesso tempo una scommessa che può essere vinta sul fronte democratico e della partecipazione di militanti e potenziali elettori. Mettendo in cassaforte un prezioso consenso in anticipo. Convocate troppo presto? Una eccessiva competizione interna può creare fratture importanti e forse insanabili prima del voto, quello vero? Chi lo può dire, intanto c’è però chi specula sul risultato prossimo venturo e parlo degli avversari che naturalmente si comporteranno di conseguenza al nome che salterà fuori il 13 dicembre, aggiustando il tiro o cambiandolo completamente, adeguando o sostituendo armi e munizioni, per non parlare dello spettro della coalizione che sembra una fisarmonica, poni un veto, togli un veto a seconda di come vedi la partita. Fontana e Maroni hanno provato lo scatto, non potevano fare altrimenti, pena l’isolamento e per Maroni qualche problema in regione. Si sono inventati una candidatura presentabile, anche se tutta da costruire, hanno trovato immediato appoggio in Varese Attiva, un coacervo di centristi, chiamiamoli così, in cerca d’autore e soprattutto di visibilità e che non hanno perso tempo per metterci il cappello sopra. Un disegno doroteo, una derivata quarta di schemi collaudatissimi della politica politicante, comunque poco o per nulla accattivanti e oscuri per l’elettorato, una operazione di palazzo. Si cerca di garantirsi una primogenitura e soprattutto di prendere in contropiede la Lega salviniana distolta dalle questioni milanesi, di mettere di fronte al fatto compiuto chi immaginava altri percorsi per individuare il candidato da condividere, come Forza Italia. Manovra in parte riuscita. Riuscita però nel palazzo. Silente Salvini, ancora stamattina in un convegno a Milano ha svicolato, sorniona Forza Italia che non fa mistero di voler prendere tempo per capire prima che tipo di competizione ci sarà e con chi, quindi tutto rimandato a dopo il 13 dicembre. Lara Comi a precisa mia domanda si trincera dietro il solito ritornello, Forza Italia appoggia chi aderisce al Partito popolare europeo. Tradotto: la Lega di pancia di Salvini non ci interessa. E quindi? Va bene un disegno centrista sul modello Malerba? Naturalmente la risposta è vaga, ma la visione è necessariamente più ampia, di larghe vedute, e tutte le opzioni sono valutabili come il pragmatico Nino Caianiello lascia intendere da tempo senza tanti giri di parole. Tornando a Malerba, la commedia prevede in questi casi l’interpretazione del solito copione mediatico: si incassa con stile, non ci si oppone, ma si rimanda ad una analisi più approfondita e chi deve capire, capirà. In questo senso, una riunione cittadina della Lega che non poteva ovviamente arrivare a nessuna conclusione, come succede sempre quando ti scaraventano un candidato sindaco sul tavolo, ha prodotto all’esterno l’immagine di compattezza e convergenza sul nominativo e non mancano di conseguenza le dichiarazioni zuccherose e accondiscendenti da parte del segretario varesino Marco Pinti, che è pure salviniano. In realtà si prende tempo. La candidatura civica per la Lega è da prendere con le molle, va bene dare un segno di novità, apertura e cambiamento, ma non deve significare il sacrificio di più di venti anni di dominio in città sull’altare di un disegno politico di retroguardia con un candidato addirittura in quota bavaresi. In altri tempi sarebbe piombato Matteo Salvini in piazza del Podestà e avrebbe azzerato, rimandato al mittente qualsiasi proposta di quel tenore ed imposto un nome interno. Ma così facendo avrebbe messo in difficoltà Maroni che proprio su Malerba sta cercando di costruire il modello regionale in salsa varesina, inclusivo di un po’ di tutto e sicuramente ben fissato al centro. Turandosi il naso per salvare la maggioranza e la giunta regionale. Non che a Salvini sarebbe dispiaciuto sgambettare Maroni, ma non è il momento, le priorità sono altre, come la costruzione della candidatura a leader del centrodestra, o della destra, alle prossime elezioni politiche e tutti servono alla bisogna. Ma l’opzione Malerba resta un azzardo. Intanto per la scelta dei tempi, mancano troppi mesi alla resa dei conti, poi è inevitabile pensare ad un disegno comune laddove si vota, a cominciare da Milano. E in questa ottica basta monitorare cosa fa l’Ncd soprattutto a Milano per capire da che parte spira il vento. Chiunque presidi uno spicchio di centro oggi non fa scelte per il semplice motivo che entrambe le coalizioni potrebbero creare le condizioni politiche per includere quel segmento o per escluderlo. E come alibi si trova di tutto e facilmente, a cominciare dai veti e dai profili dei candidati sindaco. Un Sallusti a Milano sposterebbe a destra il baricentro del centrodestra, mettendo in difficoltà un po’ tutti al centro, quelli che appunto finirebbero per valutare altri candidati al centro se non addirittura Sala. Ma vale sempre un vecchio detto che sembrano interpretare molto bene due vecchie volpi della politica nostrana, Nino Caianiello e Raffaele Cattaneo: in politica meglio farsi largo tra i cadaveri che tra i vivi. Si ascolta, si tratta, si fa finta di trattare, ma non si scende in campo, lasciando che gli altri si scannino e si espongano. C’è da scommettere pertanto che la candidatura Malerba, se si decidesse veramente di replicare il centrodestra dei bei tempi andati, non farà molta strada, sarà logorata dalla guerriglia dei cespugli della coalizione in nuce e avrà il piombo nelle ali della inconsistenza politica del personaggio prescelto, proprio perché civico. E due saranno le vie di uscita. Le primarie del centrodestra o un nome di mediazione di caratura politica che accontenti tutti, un candidato sindaco fuori dalla Lega, ma vicino a Fontana e amici, di esperienza e consistenza e altrettante capacità manovriere. E in tal senso gira ormai con insistenza il nome di Luca Marsico. Esercizi accademici svolti con un occhio a cosa succederà il 13 dicembre nel Pd e a come evolverà contemporaneamente lo scenario milanese che dipende oggi dalla decisione di Sala. Fino a Natale non succederà nulla di ufficiale, i giochi cominciano dopo.

Renzo Dionigi ci regala un altro prezioso e rigoroso studio che riguarda l’arte e la storia locale della nostra Insubria. Quando pensiamo a Dionigi, immediatamente ci viene in mente la sua lunga carriera di chirurgo di fama internazionale a Varese, nonché la cattedra di chirurgia generale da lui tenuta all’università dell’Insubria di cui è stato anche per tanto tempo magnifico rettore. Il coltissimo professore ha però curato nel tempo altri interessi di tipo culturale e storico legati al territorio insubrico. Come non ricordare per esempio il poderoso “Insubres et Insubria nella cartografia antica”, di cui abbiamo scritto ampiamente anche su questo giornale. L’ultima fatica è dedicata ad una “nicchia”, al caso dell’antica chiesa di San Michele di Palagnedra, un piccolo centro delle Centovalli nell’odierno territorio del Canton Ticino, a pochi chilometri da Locarno e dal Lago Maggiore. “Gli affreschi di Antonio da Tradate in San Michele a Palagnedra” è una Biblia pauperum tardomedievale, fra vita quotidiana, tradizioni e aspetti sociali in un villaggio ticinese, edito da Nomos Edizioni. Palagnedra è un paesino ai più sconosciuto, ma custode nella chiesa locale di un significativo ciclo di pitture tardo-gotiche a firma Antonio da Tradate (ca 1465 – 1511). Quest’ultimo, artista originario appunto di Tradate, ma trasferitosi e attivo a Locarno dove alla fine morì è annoverato nel gruppo dei cosiddetti “artisti dei laghi”. Il saggio di Dionigi contiene innanzitutto una trattazione rigorosa, puntuale e completa delle tematiche affrontate e degli apparati trattati, tipicamente da professore, direi, dall’altra comprende un ricco e vasto corredo di illustrazioni che ne fanno, secondo me, un’opera unica. Anche chi non conosce e non ha mai sentito parlare di questa chiesa e dell’arte in essa contenuta o non può rivendicare una preparazione specifica sull’argomento, riesce a farsi un quadro perfetto sia dell’opera d’arte sia del contesto in cui si trova. A tal fine sono preziose le informazioni sulla storia del villaggio e le straordinarie immagini conservate nella sacrestia della chiesa. Il percorso del testo porta poi il lettore ad individuare i luoghi tra Ticino e Lombardia dove ha lavorato il maestro locarnese di origine tradatese, molto attivo nell’affrescare chiese ed edifici civili nel territorio subalpino. Infine, sono illustrate le fasi dello scoprimento e del restauro.

Pro memoria:

Giovedì 10 dicembre 2015, alle ore 18.00 presso la Biblioteca Civica di Varese (via Sacco, 9) sarà presentato il volume "Gli affreschi di Antonio da Tradate in San Michele a Palagnedra" di Renzo Dionigi, la cui pubblicazione è stata curata dal Centro Storie Locali dell’Università dell’Insubria di Varese.

Interverranno l’autore e Andrea Spiriti.

Ingresso libero.

Il problema per definire una volta per tutte la candidatura Sala a sinistra sono le primarie. Tassativamente escluse dall’interessato e per ovvii motivi, richieste a gran voce come conditio sine qua non dal Pd milanese e dalla coalizione, o da quel che ne rimane. Utilizzate furbamente da Giuliano Pisapia come spada di Damocle da tenere sempre pendente sulla testa di Matteo Renzi, vero ispiratore e sponsor del candidato Sala, giusto per non consegnare gratis al segretario nazionale e presidente del consiglio la piazza ambrosiana che poi sarebbe sacrificata sull’altare dei calcoli romani. Un Renzi che da parte sua le vuole rimandare il più in là possibile per scaricarle di tensione o per renderle superflue. Pisapia ha il fiato sul collo della sinistra vera, Sel, quella che gli permise di costruire la famosa, vittoriosa e ormai dimenticata rivoluzione arancione del 2011. Il sindaco rischia di venire stritolato. Si trova tra l’incudine della sinistra-sinistra ormai terreno di caccia di Pierfrancesco Majorino e compagni e la sinistra-centro che cerca di speculare sull’effetto expo per consentire a Renzi una vittoria scaccia problemi e preparare il terreno per il partito della nazione in ottica elezioni politiche nel 2018. Un passagio decisivo che Pisapia sta cercando di aggirare o esorcizzare inventandosi una candidatura credibile, come quella di Francesca Balzani, la sua vice, una carta da giocare al tavolo delle mediazioni finali. Evidentemente la persuasione e le promesse di Renzi non mettono ancora Pisapia al riparo da sorprese, trappole e rischi vari. Della serie nessuno si fida di nessuno in una fase così fluida. Nei retrobottega della politica politicante si mormora di una lista civica con il nome di Sala come risposta alla richiesta di primarie, la figura e il prestigio del commissario di expo dovrebbero garantire ampiamente l’arrivo di tanti endorsement importanti non solo dalla società civile, ma anche e soprattutto dalla politica, dalla galassia centrista sempre più allo sbando e frastagliata, ma in città determinante. Un’operazione collage o collante che ben prima delle primarie serva a porre paletti importanti e lanciare messaggi perentori: al centro ci sono io, posso fare l’ago della bilancio, il terzo incomodo che sulla carta può addirittura diventare il candidato di uno qualsiasi dei due schieramenti principali. Una mossa molto ardita e scaltra, ma inevitabile per non farsi trascinare nel tira e molla delle ambizioni di questo e di quello all’interno del Pd e non solo. Molti malignano che dietro questo attivismo ci sia Letizia Moratti, ansiosa di regolare i conti con Pisapia, ma soprattutto di diventare ancora una volta determinante nello scacchiere del centro destra a corto di leadership cittadine. Coalizione visibilmente in difficoltà sia sulla composizione dello schieramento sia sulla scelta del candidato sindaco. Di coincidenze e indizi ce ne sono ormai anche troppi: Sala manager di Pirelli e poi segretario generale in comune ai tempi della Moratti, lo spin doctor Paolo Glisenti, noto amico della Moratti, al servizio di Corrado Passera e casualmente dimessosi poche settimane fa e per fare cosa? Una pletora di centristi in uscita dai vari partiti per partecipare a non si bene che disegno civico-politico, in realtà stanno guardando cosa fa Sala e non certo l’evanescente Passera. Partire dalla lista civica sarebbe un modo per non finire subito nelle sabbie mobili e far valere con una decisione concreta il proprio peso nel segmento politico, il centro, che oggi appare sempre di più come decisivo per la vittoria finale di chiunque. Altrimenti il sentiero da oggi alle elezioni si fa inesorabilmente più stretto.

Rispuntano i bavaresi in quel di Varese, ma soprattutto si chiariscono sempre di più i contorni della candidatura di Stefano Malerba. Nel silenzio assordante dei salviniani e di non solo quelli all’interno della Lega. Nel Carroccio pare che Malerba vada bene solo a Roberto Maroni, al sempre più defilato Giancarlo Giorgetti e al quasi pensionato Attilio Fontana, ansiosi di far valere peso e visibilità in città, messi a rischio dall’avanzata impetuosa degli uomini di Matteo Salvini. Perdere contatto con la realtà in questo passaggio politico significa per loro una emarginazione quasi sicura e non solo a Varese, meglio mettere al più presto il cappello sul primo candidato civico resosi disponibile. Un candidato civico o pseudo tale toglie le castagne dal fuoco, evita un braccio di ferro all’interno dei partiti e delle relative anime. Una preziosa foglia di fico. Tornando ai bavaresi, ieri è stata presentata la lista civica Varese Attiva il cui scopo neanche tanto velato è quello di fare da contenitore o punto di partenza per la costruzione di una Lista del sindaco, Lista Malerba o cose simili. Il futuro sono le liste civiche, via i simboli dei partiti che non attraggono più, si dice sempre più insistentemente. Ma sono parole vuote se guardiamo il contesto e le persone. Non c’è nulla di nuovo, è un semplice restyling. A cominciare dai promotori, roba da archeologia politica. Sotto una foto di Varese d’epoca, guarda caso, una combriccola di reduci di tutte le stagioni ha dato vita a quello che sembrerebbe l’endorsement più vicino all’ex imprenditore delle calze varesino dopo quel mondo variegato che ruotava intorno al calcio e che ora sembra attratto dal rugby passando per un quotidiano locale che appunto ventilò per primo la candidatura di Malerba. Tornando alla civica in questione, ex Udc di tutte le epoche, transfughi del Ncd come Angelini e Pramaggiore, nati politicamente ai tempi della Democrazia Cristiana poi passati attraverso tutte le sigle moderate, l’ex corrente immobiliarista di Forza Italia capitanata da Gianpaolo Ermolli, nato liberale per poi passare a Forza Italia e attraversarne tutta la sua storia sino ad oggi. Insomma, lo spaccato degli ultimi venticinque anni e più visti in chiave moderata. Promotore del rassemblement vintage, Christian Campiotti, oggi accomodatosi sulla poltrona della presidenza del Molina, già luogotenente di Lorenzo Airoldi al tempo dei bavaresi democristiani di fine anni 80. E a leggere le righe del comunicato di presentazione viene da sorridere, le stesse parole usate allora, una semplice rinfrescata, tolta la Dc ed inserita la marmellata attuale. La Dc di quel periodo alle prese con l’ascesa leghista, cercava disperatamente qualsiasi strumento che la distinguesse nel territorio dalla Balena bianca romana e il modello della Csu bavarese cascò a fagiolo. La corrente airoldiana si affermò in città anche per questo motivo prima che il suo leader finisse inghiottito dalle vicende di tangentopoli insieme con l’intero partito varesino. Non prima di aver dato vita nel 1992 alla famosa giunta dei tredici giorni con Angelo Monti sindaco e tra gli assessori pure quel Daniele Marantelli, il leghista rosso, guarda caso anche lui sempre alla ricerca di un distinguo locale, che ora i Bavaresi rischiano di trovarsi di fronte alle prossime amministrative. Lorenzo Airoldi rimessosi poi in gioco nel settore della comunicazione e delle televisioni locali, strumenti di cui conosciamo tutti perfettamente la portata e l’influenza che possono avere in ambito politico. Un consiglio non richiesto a Stefano Malerba: prima di sciogliere la riserva si studi bene la storia politica varesina e il relativo gioco degli interessi in campo, retroscena compresi.

Il motivo per tornare a parlare della maggiore infrastruttura insubrica è il sopralluogo svolto ieri per verificare l’andamento dei lavori per la costruzione della bretella ferroviaria di quattro chilometri che collegherà il Terminal 1 di Malpensa con il Terminal 2. Presenti Roberto Maroni e tutti i soggetti interessati al futuro e al rilancio dell’aeroporto. L’occasione quindi per fare il punto della situazione non tanto per quanto riguarda l’avanzamento dei lavori per la costruzione del tratto ferroviario che pare essere arrivato al 50%, ma di Malpensa in generale. Sul tema la politica vive di stereotipi, di frasi fatte e ad effetto, quasi un vademecum motivazionale per incoraggiare in primis se stessi. Le solite cose che ascoltiamo da anni, quasi fosse un disco rotto. La realtà parla però di un masterplan, quello recentemente presentato da Sea, low profile, che punta sicuramente a crescere, ma in modo fisiologico sfruttando con più efficienza ed efficacia l’infrastruttura sia per quanto riguarda la cargo city sia i passeggeri. Sicuramente Malpensa accrescerà ulteriormente il suo peso nel lungo raggio, ma praticamente solo sulle rotte point to point, scordiamoci l’hub. Eppure la politica ripete il mantra di immaginare il futuro di Malpensa come hub, ma non ci sono idee concrete e progetti in merito, restano sogni nel cassetto. Malpensa deve però rimanere perennemente in agenda, troppo importante il suo peso in Lombardia occidentale e troppe le potenzialità inespresse. Sicuramente occorre proseguire sulla via dell’infrastrutturazione del territorio per favorire sempre di più l’accesso all’aerostazione. Alla fine della costruzione di questo breve, ma importante collegamento ferroviario mancherà a Malpensa solo l’ingresso su ferro da nord, il collegamento con Gallarate. La volontà in proposito c’è, ma non si fa mistero sulle tempistiche che sono incerte. Altro dossier importante è l’ipotesi di fusione tra Sea e Sacbo (società di gestione dell’aeroporto di Orio al Serio), un’operazione destinata, negli auspici, a trasformare il sistema aeroportuale lombardo in un tutt’uno sinergico e finalmente non competitivo all’interno, come è stato spesso e volentieri nel recente passato. L’asse Malpensa, Linate, Orio al Serio dovrebbe diventare il primo hub multicentrico d’Italia, un bel termine per mascherare una scelta indotta, subita, una mezza sconfitta. Ma accontentiamoci. La politica cerca almeno di non farsi trovare impreparata di fronte ad una scelta già fatta come quella della fusione, ma deve pensare ai decenni futuri. Anche ieri, come ricordato più sopra, tutti a parlare di hub. Malpensa è al centro di una delle aree economicamente più rilevanti del mondo, nel sud Europa dove gli aeroporti hub sono saturi, ormai facilmente raggiungibile su gomma e su ferro, potenzialmente espandibile e con numeri rilevanti, nulla vieta di ripensare seriamente l’opzione hub a medio termine. Anzi, deve diventare un imperativo. Il risultato minimo è stato raggiunto proprio per la posizione geografica in cui si trova Malpensa, il numero di collegamenti internazionali, soprattutto a lungo raggio pone l’aeroporto tra i migliori non hub europei e pare anche con livelli di efficienza interessanti visti i riconoscimenti ufficiali e i premi ricevuti recentemente. Ma per fare l’hub ci vuole da una parte una forte compagnia aerea che investa su un piano industriale di questo tipo e dall’altra una politica compatta, che guardi tutta nella medesima direzione, quella di Milano, e non di Roma. Vedere il recente decreto Lupi, tanto per intenderci su quello che non si deve fare. L’imminente tornata elettorale a Milano riporterà in auge questi argomenti, non facciamoci sfuggire l’occasione per tenere caldo il dibattito.

Da un paio di settimane ormai il Pd è alle prese con l’iter che lo porterà alle primarie del 13 dicembre. I candidati, pancia a terra, stanno facendo una vera e propria prova generale della campagna elettorale di primavera, girano i quartieri, incontrano la gente, mettono a punto idee e progetti che devono diventare programmi. E’ noto però che a Renzi le primarie così presto non piacciano, a Milano addirittura le vorrebbe spostare da febbraio a fine marzo e vorrebbe fare anche un election day del Pd, un unico giorno in cui tenere tutte le primarie ovunque si voterà in primavera. Non credo che riesca in questo intento, ma è però chiaro, calendario alla mano, che si andrà alle urne in giugno inoltrato. Il farle troppo presto come a Varese rischia di snervare o addirittura disintegrare l’unità del partito. I perdenti di primarie a ridosso della presentazione delle liste non possono fare altro che appoggiare il vincente, non c’è tempo per altre soluzioni. I perdenti a tanti mesi dal voto sono stimolati invece a nascondersi nella boscaglia e a fare guerriglia, trattare il proprio consenso su tutto, alzare il prezzo con il vincente, mediare per riprendere visibilità e via di questo passo. E con il rischio in più che qualche candidato, persa la partita, scappi con il pallone. Circostanza da mettere in conto a Varese sicuramente, pensiamo al “civico” Daniele Zanzi che è un esterno al Pd e, dovesse perdere, potrebbe defilarsi e tornare a fare una lista autonoma non collegata al sindaco del Pd. Visto questo scenario, la prudenza dovrebbe consigliare i maggiorenti della Lega e del centrodestra di attendere il 13 dicembre per capire che tipo di Pd verrà fuori dalle primarie, in termini di rimescolamento degli equilibri interni, oltre che per conoscere ufficialmente il nome del candidato vincente. Anche perchè la situazione è fluida e incerta. Il dato per favorito Daniele Marantelli non sta di sicuro facendo una marcia trionfale, i tre contendenti, chi per un motivo, chi per l’altro, gli stanno dando filo da torcere oltre il preventivato. Marantelli essenzialmente va bene ai leader varesini renziani in regione e provincia Alessandro Alfieri e Samuele Astuti, di una generazione politica successiva e ambiziosi quanto basta per capire che non è importante vincere a Varese con un Davide Galimberti, per esempio, che è giovane e quindi diretto loro concorrente nelle posizioni di leadership o di maggiore peso e visibilità politica. Meglio che vinca quindi un Marantelli, considerato a fine carriera, non competitivo per le loro ambizioni. Altrimenti, apriti cielo! Ma il partito pare guardare di più una figura come Galimberti. Un bel busillis che potrebbe creare qualche problemino di troppo al Pd alla vigilia di Natale e che potrebbe di conseguenza influire sulla scelta del candidato sindaco del centrodestra. Nella Lega, come noto, le scuole di pensiero sono due. Quella salviniana che mira ad un candidato interno e quella degli altri, maroniani e non, che mira ad un candidato civico, una foglia di fico che copra egregiamente un modello Lombardia anche per Varese. Per parlarci chiaro, un ragionamento civico che riesca ad includere l’Ncd sotto mentite spoglie, ma anche Forza Italia in maniera assoluta. Ricordiamo che Ncd è oggi fondamentale per tenere a galla la barca maroniana al pirellone. Dall’esterno di queste due scuole di pensiero vengono fatti lanciare i classici ballon d’essai o i nomi buoni solo per bruciarli e toglierli di mezzo. Tra un Salvini che sa benissimo che un candidato interno dividerebbe in primis il partito e poi stenterebbe a fare alleanze importanti e un Maroni e altri che sanno benissimo che il minestrone civico con ingredienti difficilmente amalgamabili e comunque facilmente targabili è indigeribile alla Lega ci sono tutti gli spazi di mediazione possibile. C’è ancora tempo, ma non troppo. I candidati interni emersi finora sono candidati di bandiera, gli unici o i soliti candidati tirati fuori alla bisogna, per quanto riguarda le soluzioni civiche, il Carroccio ha veramente consultato quasi tutto l’elenco telefonico di Varese, rimediando una sfilza di dinieghi. Ora c’è il nome di Stefano Malerba, della famiglia del fu calzificio omonimo scomparso anni fa, il classico sasso in piccionaia per capire l’effetto che fa. E’ logico che un nome civico deve essere proposto ufficialmente dopo un percorso di condivisione e di pari dignità con chi poi farà parte di quel progetto, imporlo significa solo bruciarlo. Per un motivo essenzialmente: farselo bocciare da chi ovviamente non può accettare un disegno del genere e trovare quindi l’alibi per tirare fuori poi la vera carta che per ora resta nel mazzo, un nome, o volendo più di un nome, di caratura preferibilmente politica e già condivisibile senza aprire un tavolo e trattative. Persistere sul nome civico senza condividerlo significa disintegrare l’alleanza del centrodestra, c’è chi lo vuole, almeno per una parte, e non è un mistero. Un’ultima annotazione riguarda la mossa di Maroni di voler convocare il referendum sull’autonomia di Lombardia ben prima delle amministrative. I maligni sospettano che sia una forma di dissuasione nei confronti di Salvini: se vinco il referendum metto il cappello sulle amministrativo, se perdo vado in crisi, ma ti taglio le gambe alle elezioni. Come è facile notare, ora non è il tempo degli slogan, ma delle diplomazie.

Con la scomparsa del quasi settantenne Gilberto Oneto finisce un mondo, quello dell’indipendentismo senza se e senza ma, quello dei guerrieri senza macchia e senza paura, romantici, politicamente scorretti, ma intellettualmente onesti. E non è semplice retorica o il doveroso parlar bene di una persona appena deceduta, è un dato di fatto indiscutibile. Non mi addentro nella sua lunghissima storia personale di studi, ricerche, convegni, libri, altri lo faranno meglio di me, mi limito ad alcune veloci riflessioni personali. Pur vedendoci una decina di volte all’anno da un ventennio, non ci conoscevamo veramente. Solo negli ultimi anni abbiamo intensificato, e fortemente, i rapporti in innumerevoli scambi di opinioni che di solito ci vedevano totalmente in disaccordo. Non tanto nel merito delle questioni ideali, ma nella declinazione concreta di queste nella realtà. E’ mancato in lui, secondo me, il progetto politico o, se c’era, è mancata una visione pragmatica per renderlo concreto. L'ho sempre considerato un idealista. Il suo è stato un prezioso lavoro culturale e pre-politico, è stato un ottimo divulgatore, un brillante conferenziere, una vita a smascherare le “truffe” storiche e politiche dello stato unitario italiano. In questo lavoro, o meglio, in questa missione, lo favoriva una erudizione senza pari e una costanza veramente singolare nella ricerca e nello studio di fonti e fatti storici. Era un integralista dell’indipendentismo che collegava soprattutto a motivazioni identitarie, interpretate in modo assoluto, senza mediazioni. Con tutti gli inevitabili rischi del caso e che mi vedevano in disaccordo con lui. Lo vidi a tu per tu solo una volta, una sera d’estate dell’anno scorso, a Belgirate. Dopo tanto scambio virtuale e svariati inviti, mi decisi ad incontrarlo. Ovviamente ci trovammo d’accordo solo sui bellissimi panorami del Verbano e sul clima particolarmente gradevole di quella serata. Lo notai stanco, forse disilluso e distaccato, non mi accennò a problemi personali, ma con il senno del poi, probabilmente era già malato. Dopo un veloce accenno al progetto di un libro sulla prima guerra mondiale, parlammo essenzialmente di politica, proprio forse per non litigare. Ascoltandolo, e non potevo fare a meno di farlo perché era molto loquace, riflettevo essenzialmente sulle occasioni perse dalla Lega Lombarda poi Lega Nord e da un certo mondo culturalmente e socialmente trasversale che allora guardava con attenzione le evoluzioni del federalismo prima e della secessione poi. Un impianto culturale solido alle spalle del Carroccio degli anni novanta. Un vero e proprio think tank informale che plasmò intorno ad un movimento grezzo, con tanti principi ideali, ma poche idee chiare, una missione. Da Gianfranco Miglio in poi, includendo appunto Gilberto Oneto. Tutti fatti fuori o emarginati uno dopo l’altro in nome della sopravvivenza e del politicamente corretto. Padania, Sole delle Alpi, Indipendenza, finiti nel bazaar dei souvenir e dei gadget delle feste leghiste e contemporaneamente spariti dalla agenda politica. Rideva sarcastico e deluso al pensiero che rimaneva in campo solo la Macroregione Alpina, una invenzione della burocrazia europea per far parlare le regioni confinanti di stati diversi e nulla più. E che ad occuparsene fossero le solite vecchie cariatidi di via Bellerio e qualche apprendista stregone del cerchio magico maroniano. Sempre rivangando nelle impressioni personali dopo quell’incontro, ritengo che avesse la sensazione di essere stato usato in quel periodo, quando bastava gridare qualche slogan per scatenare il seguito delle masse. Mancavano i simboli e una lettura non conformista della storia, nonché argomenti per formulare un progetto politico. Ed ecco che i vari Miglio e Oneto erano utili alla bisogna, salvo poi finire come sepolcri imbiancati nel riflusso degli anni duemila in poi. Credo che se ne avesse avuto il tempo avrebbe scritto un giorno un libro su chi ha sbandierato l’indipendenza e la Padania solo per accomodarsi più facilmente sui velluti romani.

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Claudio for Expo

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