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“Enrico Dell’Acqua, il principe mercante”

Scritto da  Francesco Forte

Su richiesta e segnalazione di alcuni appassionati lettori e cultori di storia industriale, pubblichiamo il pregevole breve saggio del prof. Francesco Forte sulla figura di Enrico Dell’Acqua, bustocco d'adozione, pioniere dell’industria tessile cotoniera italiana. Un testo tratto dal sito del Comune di Busto Arsizio (*), dal titolo emblematico, quello di un libro di Luigi Einaudi sull’argomento, molto lungo per le caratteristiche del nostro giornale, ben scritto da Forte, bustocco anche lui, figura importante di accademico, ministro e politico negli anni 80 del novecento. Ne vale la pena per ricordare questo importantissimo imprenditore, da leggere tutto d’un fiato e con un pizzico di nostalgia (n.d.r.).

Luigi Einaudi venticinquenne scrisse  il libro su  Enrico dell’Acqua  “Un Principe mercante”, in polemica con l’economista e banchiere inglese Walter Bagehot che negava che potessero ancora esistere in quell’epoca, figure di imprenditori, come quelle italiane del rinascimento [1]. In questa idealizzazione einaudiana vi è un messaggio di politica economica estremamente attuale, perché l’Italia, povera di materie prime, ha però una ricchezza umana, che costituisce l’humus in cui possono crescere e svilupparsi gli imprenditori, se le istituzioni sono a favorevoli alle imprese nel libero mercato. Le  pagine di Einaudi su dell’Acqua hanno un tono epico, anche perchè il personaggio, con le sue gesta e con il suo stesso stile vi si presta.[2] Io qui svolgo una  prosa, che segue alla poesia. Farò, mutatis mutandis, ciò che  fece Enrico Dell’Acqua nel 1906 quando scrisse il libro “Colonizzazione commerciale italiana nell’America Latina. Le piccole  energie in azione”. A parte le digressioni liriche – egli scrisse: “ciò che io intendo sottoporre ai commercianti, agli industriali,  alle banche, è lo studio di una grande e solida impresa commerciale”[3].

Volgiamo, per prima cosa,  lo sguardo all’humus in cui è sorto questo personaggio rinascimentale, la sua città,  Busto Arsizio. Anche io ho avuto, in modo diverso le mie origini a Busto Arsizio, che allora veniva chiamata la Manchester di Italia [4]. E quando sono stato uno dei leader politici di questa zona, negli anni ‘80 e nei primi anni ‘90  del secolo scorso, i miei legami con  Busto Arsizio si sono rinsaldati.
Perché a  Busto si è sviluppata l’industria cotoniera, sino a diventare la Manchester d’Italia?  Il suolo su cui sorge, fatto di depositi geologicamente giovani in prevalenza incoerenti e per lo più permeabili non facilitava l’agricoltura perché le acque piovane abbandonano troppo rapidamente la coltre superficiale per le falde profonde. E il terreno, nonostante la discreta abbondanza delle piogge nella zona [5] soffre per la mancanza di acqua. D’altra parte a Busto non vi era un fiume per l’irrigazione e per azionare frantoi o mulini o altre macchine[6]. Il luogo circostante era, una folta foresta e questo fornì il combustibile per consentire a Busto di diventare sino dall’alto medioevo, un centro di produzione di trafilati[7]. Ma il ferro veniva importato da zone  come l’Ossola, la Valsesia, la Valsassina, la Val Trompia. Quella di Busto non era la sola area ricca di legname, ma la lavorazione del ferro, nel medioevo, era un tipo di industria che esigeva molta perizia e che soddisfaceva anche a una domanda elevata, per i lavori agricoli, per i cavalli, per le armature dei cavalieri. I trafilati più sottili  servivano per il maglino dei cavalieri medioevali, quelli più grossi per altri usi, anche militari[8]. Perchè a Busto si sviluppò questa industria? Penso che la ragione stia nel capitale umano. Quest’area era quella dei maestri comacini, architetti, scultori, pittori, decoratori, che avevano iniziato le loro attività sin dalla fine del primo millennio. E successivamente  vi fiorirono  artisti  della pittura.  In quest’area geografica vi erano una frammentazione della proprietà agricole e una situazione di libertà economica, e una vicinanza a grandi centri urbani, come Milano e Pavia, che stimolavano alle iniziative imprenditoriali. Gli agricoltori e i militari avevano bisogno di prodotti di metallo. E gli abitanti di Busto avevano investito i loro risparmi e rivolto il loro ingegno alla produzione metalmeccanica. 

Sin dal milleduecento, nell’epoca viscontea, a Busto si era anche sviluppata  l’industria tessile. La materia prima, cioè la lana o il lino o la canapa non erano, in loco, particolarmente abbondanti. Ma specializzazione di Busto nei trafilati di metalli comportava, fra l’altro, di produrre gli scardazzi per la cardatura della lana, per la produzione di filato[9]. E anche nei telai (allora manuali) occorrevano i trafilati di metallo. Per ragioni analoghe era divenuta importante anche  la lavorazione del cuoio, in cui occorrevano lame affilate e punte di metallo aguzze.[10] Nel  rinascimento, sotto gli Sforza,  a Busto si sviluppò, accanto all’industria dei tessuti di lana, quella dei tessuti di cotone, con materia prima importata dall’Egitto e da altri paesi vicini.  La ragione di ciò è che i mercanti di Busto oramai da tempo avevano sviluppato relazioni internazionali, che spaziavano a Nord, in particolare in Germania  e a Sud. Il mercante, che era spesso anche finanziere, valorizzava le energie produttive degli artigiani, fornendo loro i materiali per le loro lavorazioni e i mercati di sbocco. E dalla specializzazione laniera, Busto, come Gallarate e Legnano, gli altre due comuni di quel triangolo industriale, passò alla specializzazione cotoniera, con particolare riguardo ai fustagni. Essa si fondava su due vantaggi competitivi: la capacità di procurarsi direttamente alla fonte, con le proprie autonome imprese mercantili, la materia prima, che veniva da aree geografiche lontane e l’ampiezza del mercato dei tessuti di cotone, che era crescente, in quanto essi erano impiegati in misura crescente per gli arredi della casa, per gli abiti  femminili primaverili ed estivi  e per gli abiti da lavoro, da viaggio e da caccia e trovavano un crescente consumo nelle fasce  che non potevano permettersi i tessuti di seta e di lino.[11] Nel 1848 a Busto, che contava 11 mila abitanti, vi erano due grandi ditte tessili[12] e altre 28 ditte di medie e piccole proporzioni, che impiegavano 3 mila persone. Ad essi si aggiungevano 8 mila lavoranti a domicilio di filatura e tessitura, a Busto o nelle vicinanze, che producevano per queste imprese. I telai erano a mano, sia nelle produzioni a domicilio che nelle fabbriche. Busto era già allora specializzata soprattutto nella tessitura, che comporta la vendita al mercato del consumo, quindi una rete commerciale, una attività produttiva più complessa che la  filatura e un investimento più rilevante e quindi  una maggiore iniziativa finanziaria[13].  Nel 1888, a Busto, con circa 15 mila abitanti, vi erano 27 tessiture di cotone con 776 telai a mano e 922 telai meccanici. Altre 11 avevano solo telai a mano. Inoltre vi erano 3 mila lavoratori a domicilio, con telai a mano. C’erano anche 6 tessiture di lino con 172  telai a mano. Tenendo presente che vi erano anche altre industrie, in particolare del cuoio, la  densità industriale era  straordinaria.

Torniamo  indietro, al 1851, l’anno della  nascita di Enrico dell’Acqua. Il padre ,  Francesco, ragioniere era gestore della casa commerciale di Pietro Provasoli . La madre Anna, figlia di Pietro, collaborava all’impresa. Il fratello di Pietro era ingegnere. E il  titolo di studio di ragioniere di allora è paragonabile quello attuale di dottore in economia e commercio. Dunque una famiglia borghese agiata e colta. Enrico Dell’Acqua, dopo gli studi umanistici del liceo, che frequentò a Gorla,  affrontò quelli ragionieristici ed economico finanziari in un istituto superiore di commercio a Milano. La sua attività di manager e imprenditore nella ditta di famiglia  era stata  preparata dai genitori con i corsi liceali. Ed egli  più di altri, riuscì a fondere insieme la  solida preparazione cultuale con quella tecnica .Ma il suo curricolo di studio non era un caso isolato. Busto, come risulta da resoconti storici, era una città colta e nell’area in  cui essa si trovava era diffusa l’istruzione[14]. Ciò spiega anche come mai semplici operai siano poi diventati importanti operatori economici e parlamentari influenti come Carlo Dell’Acqua  di Legnano [15].  La tradizione culturale bustese è stata saggiamente continuata e rafforzata, con la Libera Università Carlo Cattaneo,  fondata a Castellanza, agli anni ‘90 del secolo scorso negli edifici di un cotonificio dismesso. La ditta che Pietro Provasoli aveva fondato e gestito per molti anni prima di affidarne interamente il management a Francesco Dell’Acqua era una impresa di non grandi dimensioni che smerciava nel Nord Italia e forse anche in qualche  stato vicino, come la Svizzera,  prodotti tessili fabbricati da terzisti  per la  Provasoli, che forniva loro la materia prima e le finanziava[16]. Enrico dovette interrompere gli studi superiori, ventunenne, nel 1871 a causa della morte improvvisa del padre, che comportava che lui gli succedesse nella gestione dell’impresa di famiglia con la collaborazione della madre. Enrico perciò trasformò la ditta Provasoli nella “Anna Provasoli e figlio”[17]. Non ritenendo che l’attività mercantile industriale potesse fondarsi solo sui terzisti creò a Castrezzate, in provincia di Brescia, una tessitura meccanica, utilizzando una sovvenzione del comune. Sua prima cura fu quella di addestrare in modo adeguato la manodopera mediante tessitori esperti  provenienti da Busto. A  Castrezzate venivano  fabbricati  fustagni greggi, che venivano poi tinti e finiti dai terzisti di Busto. In questo modo la produzione aumentava e si standardizzava. Si potevano ridurre i costi e ampliare il mercato. Morta Anna Provasoli, l’impresa diventò la “Ditta Enrico dell’Acqua e fratello”, appoggiata finanziariamente dal banchiere F.E. Mylius. La nuova struttura aveva bisogno di sbocchi. Enrico li individuò nel Mezzogiorno ed  effettuò quella che noi attualmente denominiamo una ricerca di mercato, scrivendo una lettera circolare indirizzata a parroci, agenti delle imposte, marescialli e brigadieri dei carabinieri dei vari comuni meridionali, per conoscere i desideri e la domanda potenziale dei loro abitanti. Con le notizie raccolte, inviò i suoi viaggiatori col messaggio “andate dovunque si veda un campanile”. Il successo fu notevole. E giovò anche alle altre imprese di Busto: i viaggiatori di tessuti che arrivavano al Sud dal Nord di Italia furono chiamati “il bustarsizio”.  Per vendere  occorreva una rete logistica adeguata. Enrico Dell’Acqua costituì depositi di merce, in loco e li affidò a piccoli commercianti e a modesti impiegati statali che trasformò in suoi agenti commerciali, seguendone  le condotte e i risultati e dando loro dettagliate istruzioni. Alcuni li chiamò a Busto, ove diventarono suoi collaboratori e una parte di loro poi li portò con sé in Sud America. E qui troviamo un insegnamento, che riguarda la formazione dei quadri dell’impresa, sulla base della competenza e della spirito aziendale. L’espansione nell’Italia meridionale non bastava. Occorreva una apertura al commercio estero. Svizzera e Francia erano piazze  troppo battute. Enrico si rivolse alla Spagna. Ma i sondaggi tramite lettere alle ambasciate e ai consolati italiani lo convinsero che non  era un’area interessante. Perciò pensò  alla Tunisia,  dominio dei francesi, ma, recatosi a Tunisi constatò che il mercato era sotto il loro controllo.  Passò a Tripoli che faceva parte dell’Impero turco anche  per esaminare  la situazione dell’impero. Ma nei 15 giorni di studio appurò che il mercato delle città , nella fascia alta, era controllato dai tedeschi, nella bassa da mercanti arabi che vendevano prodotti di infima  qualità a basso prezzo. Un mercato potenziale poteva essere quello delle carovane, ma il cabot, cioè la stoffa dei baraccani non era fabbricabile in Lombardia.  

Il problema di un assicurarsi, con una propria rete commerciale, un ampio mercato era essenziale. Il Principe mercante lo sottolinea, nel suo saggio del 1906 con queste parole: “Fin tanto che le differenze di manodopera e altri coefficienti favorevoli all’Italia daranno i suoi prodotti a miglior prezzo, continuerà la corrente di esportazione, scompaiono questi vantaggi e i nostri articoli, copiati, formeranno oggetto dell’industria straniera, perchè sono loro che posseggono i mercati”. Ecco così, che affidato le operazioni verso l’Italia meridionale al fratello, Enrico Dell’Acqua nel 1885 puntò sull’America Latina. Si trattava di vendere un prodotto italiano a una popolazione  in parte rilevante formata da italiani. I simboli dell’Italia apparvero ad Enrico Dell’Acqua  uno strumento di marketing poderoso. E ciò per due ragioni. Per la parte italiana della popolazione si trattava di far leva sui  loro sentimenti e ricordi. Per l’altra egli di far valere il prestigio che il lavoro  degli italiani aveva conseguito nell’America Latina. L’iniziativa fu preceduta da una nuova analisi di mercato, con l’invio a tutti gli uffici postali dell’America del Sud di un questionario in italiano e spagnolo, con la intestazione della sua impresa – Enrico dell’Acqua e fllo. Italia-Busto Arsizio-Italia - chiedendo entità della popolazione, percentuale di quella di origine italiana, notizie sul clima, sui prodotti del luogo, sulle abitudini locali, sui modi di accesso e sui mezzi di trasporto, sul commercio locale e di importazione, sulle banche, sui tessuti e sui generi alimentari e nomi e indirizzi di mercanti all’ingrosso. Aveva cominciato nel marzo del 1886 e nel giugno aveva già moltissime risposte minuziose. Sulla loro base,  inviò  commessi viaggiatori ai grossisti per saggiare il mercato. E con le nuove informazioni, inviò i campionari. Nel 1887 aprì a Buenos Aires una casa di esportazione e stabilì  di aprirne  in ciascuna delle capitali  degli stati in cui  fosse conveniente  operare.  Da ciascuna si sarebbe dovuta diramare la  rete di commessi viaggiatori che avrebbero portato la merce agli esercizi al minuto. Una rete in grande. “L’America non è il Paese dei piccoli passi: qui si fa o non si fa”.  Ma non partiva in modo astratto. Mentre  mandava in giro i campionari, a tre quarti  del 1887 aveva già venduto 825 mila lire di merce italiana, fra tessuti di cotone, lino, canapa, lana, seta, merletti, busti, cappelli, ombrelli, carta, vini, liquori Branca , medicinali della Carlo Erba, prodotti alimentari, insomma “made in Italy”. Il fatturato del 1887 arrivò a un milione. Per superare la barriera costituita dalle case francesi, inglese e tedesche  però bisognava concedere dilazioni di pagamento di tre, sei mesi. Occorreva una società  capace di finanziarli, con mezzi freschi. Questa fu costituita, con F. Mylius. Ma   poco dopo fu sciolta e  il  finanziamento  si tramutò un fido. La  nuova impresa, che si presentava con la sigla E.D.F., l’abbreviazione di Enrico Dell’Acqua e fratello: un marchio, agile e facile da memorizzare, nonostante il finanziamento limitato, che nel 1888  fatturò due milioni e tre nell’89.

Ma il boom del credito in Argentina, alimentato da investimenti speculativi nell’ ‘89, si arrestò di colpo. E il peso argentino scese a un aggio dell’oro del 500 per cento. Dell’Acqua aveva i debiti in lire, con parità aurea, mentre il portafoglio dei crediti commerciali era in pesos. La sua prima mossa fu di scrivere sul giornale di Buenos  Aires “La Patria degli italiani” articoli in cui consigliava al governo argentino di esigere  che i diritti doganali sulle importazioni fossero riscossi in oro onde costituire una riserva con cui pagare le importazioni in moneta con parità aurea. Gli articoli  non riuscivano ad avere un seguito operativo, in tempi reali. Così Enrico Dell’Acqua chiese ai suoi creditori di tramutare metà dei prestiti in quote sociali di una   accomandita per azioni, la  “Enrico dell’Acqua e C. per l’esportazione dei prodotti italiani nell’America del Sud”. Essi accettarono, dato che avrebbero ricavato meno dal fallimento e che tutto l’investimento fatto in America Latina allora sarebbe andato perduto. Ma i nuovi soci imposero a Dell’Acqua, che era in minoranza, di non fare in Sud America nuove operazioni allo scoperto e di effettuare le altre previa autorizzazione della Commissione di vigilanza. La  decisione non gli piacque. Nel saggio del 2006, ricordando tale esperienza,  scrisse [18]: “Quando il capitale, lusingato dai guadagni, vuol occupare il primo posto impaziente qualche volta e qualche volta incompetente e refrattario alle innovazioni, fa pesare  la sua autorità, credendo di poter raccogliere i frutti senza continuare la semina, arresta il movimento  felicemente iniziato e distrugge parte di quel che è stato fatto”.  E aggiunse che l’impresa si deve  appoggiare “sopra i sistemi , non sopra l’abilità di un individuo, né sopra la potenza del denaro che non è  mai potenza, se lo si lascia da solo. Ogni ente entri in azione nel limite delle sue attitudini. Il capitale resti quello che è: un mezzo meccanico destinato ad appoggiare il lavoro e l’intelligenza. E mentre i lavoratori gli saranno deferenti per l’appoggio che ricevono, il capitale a sua volta renderà omaggio a loro e li chiamerà a partecipare agli utili che col loro mezzo esso ritrae:le giuste associazioni, infine, del capitale e del lavoro”.  Tuttavia aderì alle richieste e pertanto scrisse alla Commissione di Vigilanza: “Noi abbiamo un ideale: quello di formare una grande casa  che dia profitto al capitale, ma nello stesso tempo torni ad onore del nostro nome e della Patria nostra”[19].
La nuova società fu chiamata “Vedetta”. Aveva visto il nome su una statua di Busto  Arsizio dello scultore suo conterraneo Ferruccio Crespi. Ai collaboratori  spiegò “Vedetta”: è l’emblema della nostra casa. Questa volta  posso dire di aver dovuto star in vedetta giorno e notte per non vedere abbattuta l’opera mia” [20]. La parola, in italiano,  era un chiaro richiamo al fatto che la ditta offriva prodotti italiani. E il termine “ vedetta” mirava a presentarli aggiornati alle ultime novità, come la vedetta che, tempestivamente, avvista gli eventi.  

Ora  il tema delle fabbriche all’estero di imprese esportatrici. Enrico dell’Acqua,  ne creò una nel 1889 il Brasile,  per superare le difficoltà create dalla nuova tariffa doganale sui tessuti, profittando della protezione doganale alle industrie locali. Voleva anche  far conoscere non la capacità di investimento italiana. “L’Italia ha bisogno soprattutto di farsi conoscere: e a richiamare su di essa l’attenzione dell’America  le industrie servono almeno come le banche e le costruzioni”.[21]. L’operazione comportò un rilevante incremento di vendite nel mercato brasiliano, compensando la minor importazione di tessuti con l’aumento dell’import di filati, che avevano un minor valore unitario. E la fabbrica brasiliana di San Rocco, facendo conoscere “il gusto italiano” trainò anche la vendita in Brasile di tessuti importanti dall’Italia. Nel 1883 il “principe mercante” creava una fabbrica di tessuti a Buenos Aires. “Iniziata con pochi telai a mano per tessuti di lino (macramè) arrivò a poco a poco  ad essere un importantissimo opificio meccanico nel 1903 con circa 200 telai meccanici, per tessuti di cotone e 90 macchine circolari di maglieria e stabilimento di appretto, candeggio, e tintoria” [22].  Si trattava della nuova strategia  per cui l’avere stabilimenti in loco di articoli  di “gusto italiano”  fabbricati con tecnologia italiana assicurava un flusso costante di merce al consumo, a costi contenuti e facilitava la penetrazione  dei beni  importati, perché dava anche un connotato nazionale alla gamma di prodotti venduti“. E non occorre che tutto sia esclusivamente italiano–capitali-uomini-articoli- si approfitti noi pure di elementi estranei; ciò che importa è che aleggi lo spirito italiano” [23]. Un nuovo insegnamento. Nel 1898, l’anno dell’esposizione universale di Torino, il capitale dell’accomandita era  di quattro milioni ed essa aveva 729 agenzie o filiali in tutta l’America Latina[24]. Il successo  all’esposizione universale comportò che, nel 1899, l’accomandita fosse trasformata in società per azioni con 10 milioni di capitale e con il nome “Società italiana di esportazione Enrico dell’Acqua”, con lui  come direttore generale. Ma lui  non gradiva i limiti che il consiglio d’amministrazione gli poneva “Il Capo deve essere lasciato in grado di eseguire gli affari nella loro freschezze: se ad ogni suo atto particolare si pretende una relazione, egli deve tenere in sospeso le operazioni, lavorare il doppio del necessario, mangiarsi il fegato invece di agire con soddisfazione”[25]. E il Capo non deve operare come uomo da tavolino “Per conoscere a fondo un paese, aprire un mercato, organizzare una Casa in modo che il personale possa lavorare senza titubanze, bisogna fare un po’ di tutto, specialmente da piazzista e da viaggiatore,  coi campioni alla mano.”[26]. Questa affermazione ci riporta a un episodio dei primi anni del 900 che mette in luce l’importanza che il Principe mercante annetteva  ai caratteri  tecnologici del prodotto. Un giorno, mentre si trovava in Buenos Aires  seppe che i suoi collaboratori si erano fatti sfuggire una grossa fornitura  per l’esercito argentino di tessuto massaua. Decise di andare dal Ministro della guerra, per spiegargli “de visu” i pregi del suo tessuto, e fece vestire con un abito di massaua un facchino che trovò in ditta. Il Ministro lo ricevette subito e lui [27], gli cominciò a spiegare i pregi del tessuto. Ottenuto che la discussione continuasse nel cortile ove c’era l’indossatore col  vestito di massaua  per dimostrare  che la stoffa  era adatta a un reggimento sotto la pioggia, si fece  portare un secchio d’acqua e lo svuotò  sull’indossatore:  l’acqua non era passata all’interno. Il Ministro lo vide, ma l’aggiudicazione non poteva essere revocata. Dell’Acqua se ne andò dicendo “ buon giorno” [28]. Aveva svolto il suo compito di far sapere, in questo modo clamoroso,  che il suo robusto tessuto di cotone aveva il particolare pregio della impermeabilità.

Con i soci erano cominciati i dissensi quando aveva impiantato in Brasile e Argentina, fabbriche che, a loro parere, facevano concorrenza alla produzione italiana, mentre secondo lui aprivano nuove opportunità. I dissensi si acuirono quando egli puntò su  una nuova strategia  per garantirsi i mercati di sbocco  quella di creare succursali di negozi al minuto, gestiti da personale di fiducia, ad essi cointeressato con la partecipazione agli utili, una sorta di franchising ante litteram. Secondo i soci di maggioranza ciò era rischioso e  impegnava capitali per un compito inappropriato. Secondo lui quel metodo innovativo di rete di distribuzione propria era capace di assicurare un fatturato ampio e crescente, con investimenti graduali poco rischiosi . E ciò  avrebbe facilitate le vendite dei grossisti, tramite la diffusione delle marche  .La rottura divenne inevitabile dopo che egli senza la autorizzazione del Consiglio di amministrazione, aveva costituto le prime succursali di vendita col marchio  Propaganda Industrial, che alludeva, con un nome italo spagnolo, a vendite a prezzi promozionali di prodotti industriali, e al compito dei gerenti dei negozi di diffondere le marche. Cosi egli nel dicembre 1903 come azionista uscì  dalla “italiana di esportazione Enrico dell’Acqua”, rimanendovi come consigliere. Ed assunse in proprio la gestione degli esercizi di “Propaganda Industrial” che la Italiana di esportazione non voleva, formando con questa  un accordo di collaborazione. Ma ciò si rivelò impraticabile perché il successo di Propaganda toglieva mercato ai grossisti della  Italiana di esportazione. Infatti gli esercizi  di Propaganda giocando sulla loro efficienza, rivendevano parte del prodotto a negozietti ubicati altrove. Si giunse così alla rottura completa e alla separazione delle due intraprese. Gli azionisti della prima cancellarono il nome di Dell’Acqua dalla ditta, con dolore di Enrico, che la considerava una sua creatura e non ne  temeva la concorrenza. Comunque il marchio Vedetta rimaneva alla vecchia compagnia che cambiava il nome in Italo americana. Il principe mercante fondò la accomandita per azioni Enrico dell’Acqua e C, dotata di 4 milioni di capitale sociale, con nuovi azionisti i signori Stoffel, Ressi e Rothpletz  che non interferivano nella gestione. Il modello era  quello dell’impresa manageriale, in  cui il comando compete a chi gestisce l’impresa , non agli azionisti di maggioranza. Il marchio era Alba Nueva, le due parole evocavano il fatto che il Dell’Acqua  riprendeva da capo e davano  la sensazione di novità, come il marchio “Vedetta”. C’era un’intuizione di marketing e d’innovazione industriale. Il tessile è moda e la moda è novità.  

Ed ecco la nuova concezione del Principe mercante del gruppo integrato -teorizzato nel saggio del 1906 ­- che impiega su vasta scala le piccole energie per sviluppare le grandi forze, applicate, mediante la divisione legale dei compiti e delle responsabilità , in ragione delle rispettive attitudini, con una visuale comune [29].
Le “piccole energie” della distribuzione al dettaglio vennero organizzate mediante una casa grossista a Buenos Aires e succursali di vendita in città e province.  Il fatto, egli scrive[30], “non è nuovo – è  invece nuovo il concetto di disciplinare il lavoro a base di un metodo e di un regolamento uniforme - divulgando l’uso delle marche per aprire la strada alle vendite all’ingrosso”.

  • “le succursali      vendono al contante e al prezzo fisso”
  • “Ogni succursale è      retta da eguale regolamento e disciplina”
  • “I gerenti sono      interessati agli utili…”
  • “Le interessenze      però si pagano dopo inventario e bilancio”
  • “Ogni mese i      gerenti delle succursali mandano relazioni sul merito del personale      subalterno e i gerenti sono sempre scelti fra i migliori venditori delle      case vecchie”.

Questa rete di vendita, che aveva come clientela le famiglie, dunque, serviva non solo per promuovere le marche, ma anche a dare “indicazioni di attualità” ai centri di base.   Ma chi dirige la falange del personale costituito dai gerenti di questi negozi? La sua risposta  fu: “Nessuno, l’amor proprio e l’interesse”. Essa ricorda la celebre frase di Adamo Smith sulla “mano invisibile” che spinge il macellaio e il fornaio a dare merce buona anziché cattiva alla clientela per non perderla. Ma non è identica, perché c’è anche “l’amor proprio”, cioè il desiderio di realizzazione di sé, che anima l’imprenditore, grande o piccolo.
La rete di vendita fatta di piccoli negozi avrebbe avuto un consistente vantaggio competitivo  se  avesse fatto capo a una impresa che non solo importasse ma anche fabbricasse parte dei prodotti, col gusto italiano. Ma “semplici industriali non si può diventare di colpo. Per essere semplici industriali bisogna preparare il mercato all’assorbimento d tutta la roba prodotta dalla fabbrica[31]”. Ed ecco così che nel 2005 con la ditta Maffioli e Battistella di Buenos Aires ,che aveva già una maglieria, fu fondato il Cotonificio Dell’Acqua[32]. Un’altra fabbrica di maglieria del Cotonificio Dell’Acqua venne fondata ad Asuncion, mentre a Montevideo fu creata una fabbrica di abiti.[33] Lo schema si sarebbe dovuto completare con fabbriche in Italia “negli articoli di forte consumo, che rappresentino marche per il servizio delle case commerciali in America”. Per fornire i grandi mezzi finanziari alla società di  produzione in Italia e alla società commissionaria, che avrebbe operato le esportazioni e spedizioni dall’Italia, si sarebbe dovuta costituire una “Società mercantile dell’Acqua al Sud America” che avrebbe affiancato la  Enrico Dell’Acqua e C., anche partecipando con questa alla società proprietaria delle fabbriche in America latina e ad alcune delle società di commercio  all’ingrosso. Non una struttura societaria verticale, ma una struttura societaria decentrata[34], con divisione di compiti e responsabilità. Il disegno non fu compiuto integralmente per la morte del principe mercante sopravvenuta nel 1910. Ma sia esso come  quello della prima fase, nell’Ottocento che emerge dalle pagine di Einaudi, danno molti insegnamenti e stimoli per l’avvenire dell’industria italiana nella competizione internazionale.

Non li ripasserò in rassegna. Colpiscono comunque l’insistenza sul valore del prodotto che richiama l’Italia e il “gusto italiano”  e quella sulle “piccole energie” come fattore per la “applicazione delle grandi forze in ragione delle rispettive attitudini” [35]. Nel 2010 è stata varata  la legge Reguzzoni-Versace-Calearo sul made in Italy. Sfortunatamente, secondo i principi dell’Unione europea, tale denominazione di provenienza, per i prodotti industriali, non è accettabile, perchè genera una discriminazione della concorrenza nel mercato unico di sapore  nazionalistico. Ma  l’italianità ha un grande valore  per le imprese  italiane, così come la ebbe  per il  principe mercante. E anche le grandi marche italiane, dotate di un propri nomi, si avvalgono del fatto che tali nomi  esprimono  italianità , come quelli delle ditte di  Dell’Acqua. C’è anche la proposta del  “made in EU”. Questo  non discriminerebbe fra nazioni del mercato unico,  mentre servirebbe a distinguere i prodotti europei da  quelli di altra, non individuata provenienza. Il marchio made in EU così consentirebbe alle multinazionali di evitare la complicazioni burocratiche a cui dovrebbero sottostare  se producono i loro beni in stati fra loro diversi, in modi non facilmente identificabili e variabili nei singoli casi. Ma un  cachemire made in Pakistan  e un tappeto made in Turchia hanno una reputazione  che mancherebbe  a un prodotto che si presentasse come made in EU. Invece il cachemire e il tappeto made in Italy o in France possono tenere testa a quelle denominazioni di origine. Non si tratta di protezionismo, ma di informazioni per il consumatore. Al divieto comunitario al made in Italy come mera indicazione di provenienza nazionale, si può ovviare aggiungendo requisiti come quelli di tipo ecologico, sociale, igienico, tecnologico ,accertabili con certificazioni, cui le nostre imprese di solito sottostanno. Esiste al riguardo una  giurisprudenza europea. Ma l’italianità del prodotto di può declinare in modi diversi, che possono portare a contrapporre gli operatori di modeste dimensioni   interessati al made in Italia con riferimento alla fabbricazione in Italia e le medie e grandi imprese,  che, come nel caso delle ditte di Enrico dell’Acqua nel suo secondo periodo, operano con il made by Italy:  il prodotto, nato in Italia, che si è sviluppato anche con la coproduzione all’estero. In questo caso, possono valere i marchi con nome italiano, riservando il made in Italy al prodotto fabbricato in Italia. E, come mostra tutta la vicenda di Enrico Dell’Acqua, gli interessi dei due tipi di operatori non sono contrastanti. Intanto le due indicazioni non si escludono fra di loro. Anche i grandi marchi italiani possono avere dei prodotti made in Italy. E in altri casi ne possono fare a meno, diffondendo il nome dell’Italia  a livello internazionale in altri modi. Come illustra l’epopea di Enrico Dell’Acqua ci possono essere dei marchi collettivi, che unificano le piccole e grandi energie, dando luogo a grandi forze, come è accaduto per il marchio Vedetta o per quello “Propaganda industrial” per i prodotti fatti in Italia o di gusto italiano fatti in America Latina.

Si possono concepire tante altre iniziative per tutelare e promuovere il prodotto italiano sui mercati internazionali e in quello nazionale. Ed esse possono unire le grandi forze e le piccole energie. Concludo, perciò, con un invito del principe mercante[36]: “Le grandi e piccole energie prestano il loro concorso spontaneo, vigoroso quando hanno una visuale … bisogna lusingarle con il mantenere viva la fiamma dell’entusiasmo”.  

(*) www.comune.bustoarsizio.va.it

Note.

[1] Cfr. L. Einaudi (1900), Un principe mercante . Studio sulla  espansione coloniale italiana, Torino. Paolo Silvestri spiegherà  perché e come il Dell’Acqua  costituisca il modello di imprenditore idealizzato dal Einaudi ,cui  egli poi rimase sempre fedele .

[2] Non a caso, per questo sui libro, entusiasticamente recensito , il giovane Einaudi si meritò l’appellativo di Emilio Salgari dell’economia 

[3] Edito a Buenos Aires

[4] Fra i miei ricordi  di infanzia c’è un cotonificio Garavaglia , perchè mio padre sostituto procuratore del re del Tribunale di Busto , facente funzioni di procuratore,aveva , in  quel periodo aveva  affittato un appartamento  nella casa Garavaglia , adiacente alla fabbrica di cui ancora ricordo l’odore di cotone bollito, che non mi dà disgusto, ma , come allora , un senso di appartenenza, Poi andammo ad abitare in via  Leonardo da Vinci, e ricordo che facevo le bolle di sapone , su un balcone di casa , con i tubetti di cartone blu , in cui era stato avvolto il filato di cotone usato in fabbrica. . La mia idea del mondo era piena di fabbriche e a me questa pareva la cosa più importante  della realtà . Vedevo anche il monumento a Enrico dell’Acqua , esaltato come pioniere dell’industria  nazionale .Così decisi ,  mentre andavo alle elementari , che avrei fatto l’economista . Era una parola che avevo imparato da mio papà, che mi portava con sé  , a passeggio,  di pomeriggio , dopo il lavoro, e si fermava  in un caffè, ove incontrava degli amici , che mi chiedevano che cosa avrei fatto da grande . il medico, l’avvocato, l’ingegnere …? Uno di loro . probabilmente laureato alla Bocconi, aveva detto   “l’economista ”.?  La parola dal suono magico mi fu spiegata  da mio padre . E  mi piacque subito l’idea che mi sarei occupato di quella realtà di fabbriche , che mi pareva così importante . Mio padre lo ripeteva agli amici , che io volevo fare l‘economista , non il medico o l’avvocato o l’ingegnere e tutti ne  erano compiaciuti . Io  mi sentivo confortato nella scelta , di cui mi sentivo  orgoglioso.  In seguito   optai per la scienza delle finanze . .Ma  l’economia industriale e l’industria tessile sono sempre rimaste come il mio secondo interesse economico. 

[5] Oltre 1000 mm di media l’anno. Su ciò e sulle notizie che seguono  nei & 1-3 cfr. G. Magini (1980), Il cento pagine bustese, Comune di Busto Arsizio e inoltre L. Ferrario (1864), Busto Arsizio. Notizie Storico statistiche raccolte da L. F, Busto Arsizio  e P Bondioli (1957) Storia di Busto Arsizio, Varese. Peril & 3 inoltre  Roberto Romano (1990), La modernizzazione periferica. L’alto milanese e la formazione di una società industriale 1750-1914, Milano, Franco Angeli

[6] . Il torrente Terrovere , attualmente Tenore, giungeva sino al XVIII alle soglie di  Busto, e poi veniva inghiottito dal  terreno permeabile , quando non inondava il comune , come più volte capitò nelle stagioni di piena.

[7] . Il nome  Arsizio, secondo alcuni studiosi, non deriva dal fatto che il comune , durante le guerre medievali , fra le opposte fazioni facenti capo a Milano e Pavia , venisse più volte bruciato, ma dal fatto che vi si vedevano di notte bagliori di fiamme , che ardevano , e che derivavano dalla lavorazione del metallo a fuoco continuo , alimentato dal copioso legname della foresta .

[8] . Non a caso, nella battaglia di Legnano, in cui Busto, che teneva per l’imperatore fu sconfitta , un fattore decisivo della vittoria  della Lega Lombarda, stando ai resoconti storici , fu costituito dal carroccio . La ricostruzione che il Muratori fece della battaglia , con il Carroccio come simbolo della città., è incompleta e inesatta . Infatti altri storici  spiegano che il Carroccio era avvolto dal filo di ferro, e che quindi era molto difficile  per gli avversari espugnarlo . E dal Carroccio. Una specie di carro armato ante litteram, i guerrieri della Lega Lombarda seminavano il panico fra gli avversari.  Il filo di ferro, fu fra le cause che fecero vincere la Lega Lombarda , ai danni di Busto che stava con l’imperatore, ma fabbricava questo prodotto

[9] Negli scarrozzi  l’elemento principale è costituito dalle lunghe punte metalliche infisse su due  semi tamburi, uno fisso ed un altro mosso a mano dal cardatore, allo scopo di liberare le fibre della lana dall’impurità

[10] Oramai Busto nel basso medioevo era  un comune  con un folto  artigianato industriale nel metallo, nel cuoio, nel tessile.

[11] Nel 1769 nel triangolo Busto-Gallarate –Legnano vi erano 600 imprese tessili con 7 mila addetti che producevano fustagno.

[12] La Francesco Turati e la Luigi Candiani,

[13] Nel 1862, poco dopo l’unità di Italia a Busto vi erano 31 ditte industriali tessili  con 400 telai negli stabilimenti  , 3560 a domicilio nella città e 1180 nei dintorni. Gli addetti erano 8,347 di cui 5.140 tessitori, con una produzione annua  di 139.300 pezze di 70 metri lineari ., ossia un milione di metri lineari di tessuto di cotone. Il fatturato era di 5.572.000 di allora e la spesa per la manodopera era di 1.113.000.

[14] Per capire la diversità fra la storia industriale di questa zona e quella di altre , basti osservare  che il cotonificio dell’Acqua e C di Legnano all’inizio del 900 assumeva solo operai in grado di leggere e scrivere e iscritti a una società di mutuo soccorso, come del resto altre imprese dell’area Cfr. Roberto Romano (1990), , pag. 265-66 . Il proprietario del  cotonificio in questione era  Carlo dell’Acqua  . Cfr nota  seguente .

[15] Non parente di Enrico. Su di lui cfr. Roberto Romano ,(1992), L’industria cotoniera lombarda dall’’Unità ad oggi, Milano, Banca Commerciale Italiana 

[16] La borghesia  di Busto e in genere del triangolo Busto-Legnano-Gallarate, il polo industriale dell’Alta Lombardia Occidentale , a differenza di quella di altre zone dell’Italia, non considerava il commercio e le manifatture come una attività indegne del suo stato e vi investiva i propri risparmi e il proprio capitale umano, dopo averlo dotato di una buona preparazione culturale

[17] Il nonno,  ne assunse la presidenza, per assicurane la continuità di gestione  con la sua precedente impresa .  

[18] E. Dell’Acqua (1906), pag. 8

[19] Cfr.E. Cozzani (1929)

[20] E. Cozzani (1929), pag. 55

[21] E. Cozzani (1929), pag. 60

[22] E. Dell’Acqua (1906), pag. 10

[23] E. Dell’Acqua (1906), pag. 7

[24] Dall’Argentina e il Brasile ove c’erano le due case madri e le due fabbriche, alla Bolivia, al Cile, al Perù all’Uruguay, al Paraguay., alla Columbia , al  Venezuela,all’Equador

[25] E. Cozzani (1929) pag. 74

[26] E. Cozzani (1929) pag. 75

[27] Metà in spagnolo e metà in italiano , con qualche battuta in dialetto per  maggior colorito al discorso Cfr. sull’episodio Cozzani (1929) pag. 109-110

[28] Cfr. E. Cozzani (1929) pag. 119-20

[29] E. Dell’Acqua (1906), pag. 7

[30] E. Dell’Acqua (1906), pag. 24

[31] E. Dell’Acqua (1906), pag. 136

[32] Con capitale di un milione di lire sottoscritto per metà dalla E. dell’Acqua e C e per metà dai soci di quella ditta e da terzi fra cui gli azionisti  dell’accomandita  Enrico Dell’Acqua e C.

[33] Nel Cile  invece la produzione veniva  assicurata  dalla maglieria G. Corradi & C.  che produceva agli ordini della sua impresa .

[34] Il Dell’Acqua usa il termine “discentramento”

[35] E. Dell’Acqua (1906), pag. 11

[36] E. Dell’Acqua (1906), pag. 6

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