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Giuseppe Panza di Biumo. L’arte della collezione

Scritto da  Silvia Venuti

Jean Baudrillard scriveva: “Si colleziona sempre il proprio io”. Attraverso le opere, raccolte nel tempo da Giuseppe Panza di Biumo, è infatti possibile ricostruire limpidamente la sua personalità. Era nato, nel 1923, da una famiglia dell’alta borghesia milanese: il padre era abilissimo negli affari mentre la madre e la zia amavano dipingere. “Il mio interesse per l’arte risale al 1936, quando ero un ragazzo e mi divertivo a guardare le illustrazioni d’arte sull’Enciclopedia Treccani e a indovinare, coprendo le didascalie, autore e scuola. Questo lo facevo sull’antico, ma già a quei tempi mi interessavo d’arte contemporanea che era rappresentata da Braque, Picasso, Sironi e Morandi.”

Laureatosi in giurisprudenza, mirava ad ampliare, costantemente, le proprie conoscenze in ogni disciplina, amava Leopardi, Montale, Ungaretti, i romantici inglesi: “poeti che affondavano le loro emozioni nella natura”. Nella Villa settecentesca di Biumo, a Varese, ritrovava una rappresentazione del loro mondo ideale: “Era un luogo magico dove la realtà si trasformava nella bellezza totale dell’idea. (…) Le caratteristiche che più mi colpivano erano il giardino, la luce, l’orizzonte visibile in tutte le direzioni. Era un grande spazio verde sospeso tra cielo e terra.” (*)

E questa tensione al sublime diventerà la cifra della sua raccolta e, insieme, un impegno etico di vita.

Inizia la collezione, nel 1956, con un quadro astratto di Atanasio Soldati, scelto insieme alla moglie, Rosa Giovanna Magnifico, da cui avrà cinque figli. Intorno al 1958, si definisce, autorevolmente, come collezionista, con acquisti importanti di opere di Fautrier e Tàpies. Esordisce, quindi, attraverso un humus informale, sostenuto dai suggerimenti di Pierre Restany e di Guido Le Noci che lo indirizzano a considerare il panorama artistico internazionale. Nel 1959, compra opere di Kline, di Rothko e di altri artisti dell’Espressionismo Astratto, poi è la volta dei lavori di Rauschenberg. Il lungo viaggio del 1954, effettuato per motivi di lavoro negli Stati Uniti, lo aveva accostato alla creatività d’oltreoceano, stimolandolo a successive trasferte, per conoscere nuovi artisti. Il centro dell’arte si era spostato da Parigi a New York, dove stava nascendo una cultura alimentata da energie e suggestioni tipiche di un Paese in evoluzione, caratterizzato da paesaggi sterminati. Negli Anni Sessanta, dopo una parentesi new dada e pop, i suoi interessi si orientano verso le espressioni della minimal art e della conceptual art dove predomina una forte tensione intellettuale resa con forme semplici, primarie, essenziali. In seguito saranno gli artisti dell’arte ambientale a diventare i protagonisti delle sue scelte. Tra il 1963 e il 1969 e, ancora in seguito, tra il 1976 e il 1987, è costretto a sospendere gli acquisti per la crisi che colpiva il settore immobiliare in cui operava, ma negli Anni Novanta ritorna ad incrementare il suo patrimonio artistico con opere di Peter Shelton, Roni Horn, Ettore Spalletti, Max Cole, David Simpson e altri ancora, confermando la sua vocazione di talent scout.

La collezione, che raggiungerà nel tempo le duemilacinquecento opere, rivela alcune costanti nelle dinamiche e nelle scelte. Giuseppe Panza si orientò verso specifici artisti, acquistando un numero rilevante delle loro opere e ignorando così il carattere enciclopedico delle raccolte tradizionali. Per le grandi dimensioni, i lavori, erano già destinati a grandi spazi espositivi e non a residenze private. Essi venivano scelti secondo un criterio di affinità personale tra l’acquirente e le ricerche sviluppate dall’artista, facendo emergere una forte soggettività all’interno della traccia storica. Per Panza collezionare e sostenere determinati autori, significava indicare un pensiero ideale che trascendesse il contingente. Rifiutava, infatti, documenti su performances o happenings, perché considerava che la vera arte dovesse durare nel tempo, segnare la storia e, si adoperò, perché le installazioni perdessero la caratteristica della temporaneità, creando degli spazi specifici per la loro conservazione. Il motto della sua vita fu comprare, conservare, tramandare.

La sua strategia fu quella d’imporre un’espressione che favorisse il benessere della società, perché affermativa e positiva, contro un’ideologia della morte. Promosse un’arte caratterizzata dalla rigorosa ascesi e dal silenzio metafisico, quale soglia verso l’illuminazione e la fusione cosmica con la natura; un’arte monocromatica, costituita da suoni e luci, parole, concetti e teorie; un’arte dominata dall’astrazione, dall’ordine, dall’armonia, dall’essenzialità. Giuseppe Panza manifestò, inoltre, una totale dedizione agli artisti americani, perché simboli di una creatività nuova, proiettata verso l’avvenire con propositiva spinta idealistica. Il suo impegno verso autori come Robert Ryman, Robert Barry, Lawrence Weiner, Joseph Kosuth, dimostrò quanto valorizzasse la ricerca di un rinnovamento artistico. Nel 1983 cedette un gruppo di ottanta opere degli Anni Cinquanta e Sessanta al MOCA, Museo d’Arte Contemporanea di Los Angeles, e oltre seicentocinquanta opere, realizzate tra il 1963 e il 1975, al Museo Guggenheim di New York.

Al FAI, Fondo per l’Ambiente Italiano, donò, nel 1996, Villa Menafoglio Litta Panza di Biumo (a Varese, n.d.r.), insieme a circa centoquaranta opere, degli Anni Sessanta e Novanta, così che il significato ideale del monumento potesse essere conservato intatto nel tempo. La Villa presenta, infatti, installazioni site-specific che utilizzano la luce per creare suggestioni spaziali, come le costruzioni luminose di Dan Flavin, Robert Irwin, Maria Nordman e James Turrell. Il conte Giuseppe Panza, scomparso nell’aprile del 2010 a Milano, all’età di ottantasette anni, con il suo impegno risoluto, ha saputo trasmettere un ideale di Bellezza all’umanità.

*pubblicato originariamente su DarsMagazine

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