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"Un profeta in patria": intervista a Vittore Frattini

Scritto da  Federico Bianchessi

(Bianchessi) Molti artisti nella storia sono stati, e sono, “figli d’arte”. Per te che cosa ha significato un padre artista affermato? Ti è stato più di stimolo e di aiuto o pensi di aver dovuto affrontare un ostacolo in più, un primo giudizio severo proprio in famiglia? E ricordi come iniziò? Il tuo primo lavoro che ottenne un riconoscimento, il tuo O di Giotto (o le zampe dei piccioni di Picasso, a proposito, un altro figlio d’arte)? Chi ti incoraggiò di più: papà, mamma, amici, insegnanti? A proposito, che scolaro eri: bravo in disegno, e poi? Che cosa pensavi di fare da grande, artista a parte?

(Frattini) Con una personalità come quella mio padre, Angelo, tutto mi è stato reso possibile e più semplice, tuttavia nessuno in casa si è intromesso nelle mie scelte. Da ragazzo, ho praticato per breve tempo lo sport, calcio e pallacanestro, in particolare, che mi ha dato delle basi non solo di gioco ma di vita. Per la verità, all’inizio non volevo seguire la strada dell’arte: avevo conosciuto bene il giro del Circolo degli Artisti (fondato da mio padre con Giuseppe Montanari) e mi ero reso conto di come, dopo la guerra, fossero quasi tutti in difficoltà economiche. Temevo insomma di non potermi guadagnare da vivere, in modo indipendente, seguendo le orme paterne. Poi, però, ho deciso di iscrivermi al liceo artistico e da lì ho imboccato la mia strada.

(Bianchessi) Quali incontri hanno segnato più di altri la tua carriera? Sei arrivato sulla scena artistica in un periodo felice ma anche febbrile e controverso dell’arte contemporanea italiana, di storiche battaglie. Come sei sceso in campo, anzi in quale campo, con chi e contro di chi?

(Frattini) In campo c’era allora l’informale, poi il post informale e tante strade si erano aperte, come il neorealismo esistenziale, il concettuale...ricordo l’impatto che ebbero a Milano, e non solo, la mostra di Pollock a Palazzo Reale, e quella di Lucio Fontana alla galleria Apollinaire in un ambiente artistico che era di altissimo livello, anche europeo. Negli anni tra il 1955 e il 1960, vivemmo un fermento di ricerca straordinario, unico per entusiasmo e anche per la credibilità dei risultati. Partecipai a più edizioni del Premio San Fedele a Milano, dal 1954 al 1965, e alla Biennale dei Giovani di Gallarate, nel 1959. Nel 1957, un amico di mio padre ci invitò a Parigi, dove Flaminio Bertoni (lo scultore varesino progettista delle più famose Citroen come la Ds e la 2CV) mi trattò da suo allievo, dandomi consigli preziosi. Sempre in quell’anno ebbi l’occasione di tenere la mia prima personale nel Salone del Festival al Casinò di Sanremo, allestita subito dopo una bellissima mostra di un grande maestro come Filippo De Pisis.

(Bianchessi) Nelle tue opere è possibile leggere alcuni “debiti”: al futurismo, per esempio. All’aeropittura. Agli artisti americani dell’astrattismo lirico. A chi altri ti senti maggiormente legato degli artisti del tuo tempo e anche del passato?

(Frattini) L’ultima parte del Futurismo ha avuto una forte influenza sulla mia opera, come anche quella di Umberto Boccioni e di certa pittura lombarda. Nei miei paesaggi degli anni ’60 c’era ad esempio una linea dell’orizzonte già molto alta e mossa.

A proposito dell’aeropittura, cito quanto scrisse Philippe Daverio nel catalogo della mostra “Volare il futurismo, Aviomania”, tenuta a Palazzo Reale di Milano nel 2003: “L’aeropittura negli anni venti del XX secolo fu una straordinaria invenzione, tutta italiana. Nessun altro artista che uno legato alla tradizione plastica dei peninsulari avrebbe pensato allora che l’arte astratta, appena scoperta come percorso della mente e dell’occhio, avrebbe così facilmente trovato un riferimento concreto e tangibile nella forma concettualmente perfetta e conclusa dell’ala di un aereo o nella visione cinetica del volo. Si apriva una strada nuova nella quale astratto, figurativo e concreto non erano opposti, ma diventavano la naturale rispondenza di mondi identici, di realtà create dall’inventiva. Ancora negli anni Cinquanta, quando questa cultura astratta sarà dominante, in Italia si tenterà di darle concretezza e da questo singolare compromesso nasceranno capolavori, spesso purtroppo dimenticati, di Nino Franchina, il siciliano genero di Severini, con le sue straordinarie forme di ali e di eliche. E di recente lo scultore Frattini ha realizzato per l’aeroporto della Malpensa una scultura che proviene direttamente da questa linea, rinnovandola”.

A metà degli anni Sessanta, ho poi avuto la possibilità di conoscere direttamente, in un viaggio a Washington e a New York con un gruppo di artisti italiani, le opere dei grandi innovatori americani, come Noland, Newman e Morris Louis, per esempio il loro uso delle tele grezze, che mi hanno aiutato a concepire una materia più fresca. Quel viaggio mi aprì gli occhi e conobbi anche, proprio in America, la straordinaria raccolta del conte Panza, al quale debbo molto per la mia attività.

(Bianchessi) Il rapporto con la tua città: sei uno dei rari “profeti in patria”, hai avuto successo dove sei nato, le tue opere si incontrano nelle vie e nelle piazze di Varese. Come lo spieghi? Cosa rappresenta per te una città che ad altri appare magari culturalmente arida e attenta solo ai danée?

(Frattini) Quello con Varese è effettivamente un rapporto molto privilegiato. Mi chiamo “Vittore” come il patrono della città, che ne dici? Forse anche per quello ho ricevuto, ma anche lasciato qualcosa…

(Bianchessi) Quali personaggi sono stati importanti per te, nel mondo artistico e al di fuori di esso, scrittori come Piero Chiara, ad esempio?

(Frattini) Ho conosciuto nel mio percorso personaggi importanti come Renato Guttuso, Lucio Fontana, il grande critico d’arte Luigi Carluccio, l’indimenticabile storico Gian Alberto Dell’Acqua, il già citato Giuseppe Panza di Biumo, il poeta Mario Luzi. Avevo soltanto 13 anni quando ho conosciuto Piero Chiara, mentre posava per un bellissimo ritratto eseguito da mio padre Angelo. Nacque allora un rapporto durato assai a lungo e durante il quale abbiamo fatto insieme molte cose. La più importante, da parte mia, fu il Mini Pocket eseguito nel 1974 con Giorgio Upiglio. Un lavoro che segnò per me un passaggio fondamentale.

(Bianchessi) Come vivi il tuo rapporto con il quadro, o la scultura? Lavori di getto o ti prepari a lungo? Correggi, butti via, ti penti? Cosa ti fa scattare la molla di una nuova opera? Hai dei colori – nel senso del tipo e anche cromatico - e delle materie preferite? Lavori al cavalletto? Credi ancora al valore del quadro come spazio della espressione artistica occidentale?

(Frattini) Dal ’74 ,75 il mio modo di procedere nel mio lavoro è un poco mutato, ma i momenti di difficoltà e scoraggiamento sono ahimè sempre dietro l’angolo. Non è più un modo tradizionale di lavorare, in quanto per realizzare opere di grandi dimensioni o grandi pannelli in “mosaico” devi inventarti supporti anche complessi e diventa determinante il team di lavoro (mio fratello Gigi, ottimo designer, e i miei figli Sara, Massimo e Paolo, oltre a qualche bravo ingegnere): di grande aiuto, ad esempio, per i monumenti come quello a Giovanni Borghi davanti al palazzetto dello sport di Varese o quello al Terminal 1 dell’Aeroporto di Malpensa. Una “location” a me molto affine anche per quanto detto prima a proposito dell’Aeropittura, e dove, non a caso, il Museo MAGA presenta con la collaborazione della Sea una mia vasta rassegna.

(Bianchessi) L’arte italiana è stata protagonista a lungo, anche nel secondo ‘900. Oggi, salvo nomi sporadici, come Cattelan, Vangi, e pochissimi altri, sembra ai margini della scena. Anche la Biennale di Venezia sembra produrre glorie effimere, come Plessi. Colpa del Paese nel suo complesso, del suo ridotto peso specifico? Di un mercato difficile? Del venir meno dei “mecenati”? O si è inaridita una vocazione? Come spieghi fenomeni come il fatto che il più quotato artista italiano nella classifica delle aste del 2013 – ventesimo al mondo – sia lo sconosciuto (almeno da noi) altoatesino Rudolf Stingel, di cui sono state vendute opere per oltre 8 milioni di euro – e la più quotata è stata pagata 864mila euro?

(Frattini) Ci sono artisti assai validi anche nella mia generazione, altri invece sono bravissimi soltanto nel mettersi in mostra, come persone, e hanno grandi abilità di ogni genere, ma con risultati che a me sinceramente non interessano molto. Chi le spara più grosse arriva a collezioni e a case d’Asta spesso assai nebulose...

(Bianchessi) Le scuole d’arte, i licei artistici, le accademie sfornano tanti ragazzi pieni di sogni, anche preparati e di talento. Che prospettive hanno rispetto a quando eri giovane tu?

(Frattini) Le scuole servono per formarsi le basi di un lavoro che possa resistere nel tempo, per evolversi naturalmente e non cadere nelle trovatine...orecchiabili. Le cose, rispetto ad allora, più o meno sono rimaste le stesse.

(Bianchessi) Il grande protagonista delle tue opere si direbbe il cielo. La sua luce, i suoi lampi. Un cielo solcato a volte dai segni dell’uomo, come le scie degli aerei. Ma segni precari, come nuvole, fumi destinati a dissolversi presto. Una metafora della fragilità dell’avventura umana, o della capacità di trovare impreviste intese tra tecnologia e bellezza della natura? Quei lumen che si accendono nel buio sembrano fatti della sostanza dei fari notturni sul lago che accendono la Luino invernale di Vittorio Sereni, di quella dei sogni o dei fantasmi… Quanto conta per te il rapporto con la natura?

(Frattini) Sono sempre stato attratto, come artista, dagli effetti dei fenomeni naturali come temporali, fulmini, meteore…e a poco a poco, soprattutto dagli anni ’55-’60, ho cercato di eliminare dalla tessitura dell’opera la trama del gesto aggressivo dei miei inizi, creandone uno ex novo. Così, quasi per gioco, provai dei colori acrilici luminescenti, ottenendo una visione anche notturna dell’opera. I “Lumen”, appunto. Non sono mancate ovviamente le inquietudini, i dubbi, la fatica del cercare, ma il superamento di una concezione esistenziale negativa dell’uomo e il recupero di esperienze essenziali sia di fenomeni naturali sia di quelli forniti, tanto per esemplificare, da apparecchiature elettroniche che consentono di tradurre graficamente le vibrazioni stesse del nostro cuore che si fanno linee-luce, ha costituito, credo, un esito non banale del mio lavoro.

*foto: Vittore Frattini (a sinistra) con il Conte Giuseppe Panza di Biumo

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